Magda Maddalena Marconi
Psicologo Psicoterapeuta Logoterapeuta Ipnoterapeuta
L’eterno femminino tra la vita e la morte
La donna come persona che è in grado di procreare ha, implicite in sé, la vita e la morte: la vita come speranza di generare un figlio che può tradursi in realtà e la morte come timore di perderlo in grembo o dopo la nascita. Essendo la donna in grado di dare vita espressiva alla sua potenzialità materna riesce, nella maggior parte dei casi, ad elaborare anche il peggior vissuto: quello della morte della persona amata.
La storia di Anna, laureata in medicina, ci offre un ulteriore possibilità per comprendere che l’essere umano può uscire dal trauma peggiore, la morte, vivendolo come un’occasione di crescita personale.
Anna si impegna a mantenersi in vita perché così avrebbe voluto il suo amato e decide di interagire con se stessa per notare le domande che la vita le pone e per rivolgeremaggior attenzione alle risposte interiori; capisce che deve accettare, non può far altro e, in nome della fede nel grande mistero della vita, si acquieta e non accetta supinamente ma trova un senso nonostante tutto ciò che le accade. Anna vive quest’esperienza come una prestazione esistenziale; sicuramente la più forte e dolorosa della sua vita, ma la vuole vivere. Con il sostegno della Logoterapia e dell’Analisi Esistenziale, mette sempre più a fuoco la profondità del senso del dolore che sta vivendo e si appella ai suoi valori di atteggiamento.
Il lutto all’interno della sua famiglia viene vissuto, nelle varie unicità di ogni singola persona, in modi e tempi molto diversi, creando dei profondi mutamenti personali e relazionali.
Le reazioni iniziali
La fase iniziale del lutto può, in alcuni casi, disgregare i legami familiari che prima si erano consolidati da tempo ma, nel periodo successivo al lutto, può trasformarsi in opportunità di cambiamento, di vera crescita. Ogni morte sentita come strappo violento è seguita da processi individuali che è impossibile definire in quanto unici. Ogni assestamento emotivo che coinvolga anche gli affetti, crea inevitabilmente degli sforzi nelle varie sofferenze individuali, ed è doveroso attendere i riequilibri psiconoetici di ognuno.
Le diverse reazioni al lutto all’interno della famiglia sono la negazione, la fuga, la proiezione, la collera o il congelamento delle emozioni, a volte la distrazione sfrenata o la rassegnazione passiva. Anche la quiescenza noetica è una risposta che chiude la persona nei confronti della vita.
L’eterno femminino implicito in Anna si manifesta alla sua coscienza quando lei si rende conto che ciò che ha patito durante l’“attesa del parto”, le si ripropone anche nel momento più penoso dell’esistenza: quello dell’“attesa della morte” e, in seguito, dell’attesa che ognuno si disincagli dal labirinto del dolore.
Dal nonsenso del morire al senso della morte
Credo che nessuna morte abbia un senso, almeno agli occhi della limitata comprensione umana. Razionalmente il significato che possiamo attribuire al morire è soltanto quello del procedere verso qualcosa d’altro come quando, nel nostro viverequotidiano, sentiamo l’attimo di qualcosa che ci lasciamo alle spalle e l’attimo di qualcosad’altro che stiamo per intraprendere. Quel passaggio vincolato alla caducità del tempo, che viviamo in tutte le cose che facciamo, fa parte del processo evolutivo ineliminabile di ogni essere umano.
«Ma la morte che senso ha?» mi chiede Anna.
La morte è implicita nella vita, intesa come dualità intrinseca, inconfutabile ed eterna.
Perché si deve morire inerisce una delle tante grandi domande sull’esistenza umana e riguarda, in termini antropologici, il momento più o meno lungo, più o meno travagliato del lasciare la vita terrena. Per Freud il lutto è sempre e solo un moto intrapsichico; per Frankl non può essere solo così: è importante che lo Spirito, il Nous trascenda verso la richiesta chiara ma misteriosa di Dio. Ed è proprio il mistero il vero dono che alleggerisce l’animo.
Anna perde in pochi mesi la persona che aveva scelto di amare e con la quale visse quasi quarant’anni: anni intensi e scanditi da gioie ma anche da esperienze di forti dolori, di prevedibili ma rassicuranti quotidianità, soprattutto di forti emozioni affettive. Subito dopo la perdita del suo uomo, così importante, sembra che nessuna cosa scalfisca il suo dolore poi, durante un pianto angosciato, ricorda la sua voce che le diceva negli ultimi anni di vita, (quando ancora lui godeva di buona salute): «se mancassi tu io non ce la farei…tu invece sì…se mancassi io per primo ce la faresti perché sei forte e riusciresti a cavartela anche senza di me». Questa frase ricordata proprio durante quel pianto, iniziò a smuovere in Anna delle risorse sopite, sepolte dallo strazio della morte. Risorse che Anna sa di possedere e di poter sfruttare ma il tempo in cui si trova è un tempo lento, vuoto, un tempo in cui, pur soffrendo, sa di dover vivere e così, consapevolmente, sceglie di calarsi nel suo dolore perché anche questo deve avere un senso! Lì per lì, non è possibile scoprirlo, è troppo presto… Rimanere nel dolore significa soffrire ma vuol dire anche “lasciare all’aria la ferita” affinché si rimargini…e man a mano che i giorni e i mesi passano, Anna si impegna a mantenersi in vita perché così avrebbe voluto il suo amato. Sceglie di interagire con se stessa per rispondere alla domanda “perché così presto?”
Tutti i suoi drammi precedenti sono stati superati grazie ai suoi valori e, ancora una volta decide, nonostante tutto, di riprovare a vivere. Solo dando un senso a questa grave perdita, Anna passa dalla fase del cordoglio (cuore che duole) alla fase del lutto. Andando a rivedere l’agenda personale del giorno coincidente alla morte di suo marito, nota di aver scritto la frase “caro adorato…ripartiamo da qui per parlarci con lo spirito” e guardando più volte questa frase si rende conto solo ora di averla scritta senza una chiara consapevolezza…scritta di getto ma pregna d’importanza. Da qui si crea una nuova comunicazione spirituale con se stessa e con lui.
Nel lutto, come dicevo, l’essere umano può vivere varie fasi caratterizzate all’inizio dalla negazione: si nega, si rifiuta ciò che si teme possa accadere. E’ importante uscire quanto prima dalla fase della negazione, possibilmente già nel periodo terminale che la persona morente sta attraversando.
La morte buona
L’uscita dalla dinamica della negazione permette alla persona che sta morendo di ricevere l’aiuto più importante che un essere umano possa desiderare dalla famiglia: andare verso la morte mano nella mano, sentendosi accompagnata amorevolmente; ma permette anche alla persona disperata di essere presente a se stessa per attraversare la morte insieme ed accompagnare il proprio amato…alla vita ultraterrena.
Attraversare significa entrare in modo consono nel bisogno del morente (con la parola, il silenzio, il gesto), di vivere in modo dignitoso la fine della vita; accompagnare è solo un attimo pregno di mistero che non è giusto descrivere perché nessuna parola, per quanto ricercata sia, potrà mai espletarne il vero senso.
Se la vita di coppia è stata ricca di senso…la morte ha il suo senso ricco proprio nel momento storico in cui Dio ha deciso per essa.
Anna, dopo lo choc della notizia, nega ma soltanto per poco tempo. Come ha semprefatto nei momenti di grave difficoltà che la vita le ha imposto, cerca di recuperare dentro di sé tutte le energie per rendere buona la morte del suo adorato compagno di vita. Facendo appello ai propri valori di atteggiamento cioè alla sua tenacia, al coraggio, alla calma, alla volontà di non rendere penosa e spaventosa l’ultima notte del suo compagno, si prepara ad accompagnarlo.
“I valori di atteggiamento […] sono situati in una dimensione più alta, rispetto a quelli creativi e di esperienza: parlando di senso della sofferenza, non si tratta infatti di una possibilità qualsiasi, ma della possibilità di realizzare il più alto valore, dell’occasione di attuare il significato più profondo: «l’accettazione, almeno nel senso che essa ci fa sopportare nel modo giusto e leale un destino autentico, è essa stessa un’azione; meglio ancora, essa è non solamente ‘una’ prestazione, ma ‘la più alta’ prestazione che all’uomo sia dato di realizzare».” (Bruzzone, 2001, p.329).
Anche in queste ultime ore della vita terrena del suo amato, Anna percepisce che la propria anima, come dimensione femminile più profonda, le offre esattamente ciò di cui ha bisogno: l’attesa del tempo del morire che il suo compagno di vita e lei stessa stannoesperendo. Ricorda che, come ha saputo controllare il respiro e il tempo per far nascere i suoi figli, ora li mette a disposizione del suo amato ch’è tutto proteso nel coma pre-morte ad accogliere ogni sua parola. Lui non parla più ma Anna sente che sta attendendo qualcosa da lei e così… gli rievoca i passi più importanti della loro lunga vita insieme! Sente che per lui è importante collegare tutto il passato pieno di senso con il presente che è un abbraccioavvolgente e rassicurante per entrare insieme in una dimensione che Anna può solo immaginare ma lui sta già esperendo.
Ogni punto della stanza si fa silente per favorire l’eco di quelle parole sussurrate ma rimbombanti; ogni ombra della notte sembra sostare, sospendere i suoi contorni per lasciar indisturbato quel fluire di parole…le infermiere discrete si affacciano all’uscio ma indietreggiano in punta di piedi per non infrangere la sacralità di quei momenti.
Tutto tace ma ogni scambio invisibile di ciò che si crea tra lei e lui riempie di senso la stanza, l’ospedale, l’universo. Dopo alcune ore…la vita fisica dell’amato si spegne con un gemito flebile fra le braccia della donna che ha amato più di se stesso.
Silenzio…
Nell’istante del distacco dell’anima dal corpo, Anna avverte l’ascesa dell’essenza del suo amato dal corpo sofferente e…rimane in silenzio.
Nessuno lo sa ancora, solo lei.
Dopo pochi minuti, le viene dato l’anello nuziale ancora tiepido che indossa subito per dargli continuità col proprio calore e avverte che l’anima dell’amato l’accompagna fuori dalla stanza, fuori dall’ospedale e rimane con lei. Per confermare a se stessa questa sensazione, mentre torna a casa, ricorda di aver letto che mentre il corpo “cessa di esistere per dissoluzione o per disgregazione di parti perché è composto, l’anima umana, essendo spirituale, non può cessare di esistere in nessun modo […] quindi non può morire […] si disgrega e scompone soltanto ciò che è composto, vale a dire ciò che ha parti, le quali possono venire separate […] ma l’anima spirituale non ha parti, è semplicissima, perché le sue manifestazioni più elevate, come le idee astratte, sono semplicissime; le idee sono inestese, si sottraggono a tutte le condizioni della materia […] quindi non è possibile scomporla; pertanto, semplicissima (in nessun modo composta) e avente un’esistenza propria, l’anima umana non può essere distrutta da nessuna forza naturale” (Marcozzi, 1992, p. 201-2). Ricordando questa lettura ed avendo dentro di sé la sensazione di camminare con lui-spirito, va verso casa.
Cordoglio e lutto in chi sopravvive alla persona amata.
La persona che sopravvive ad una perdita importante può reagire frenando le proprie emozioni o proiettandole all’esterno. Anna non le frena e non le proietta, se le vuole vivere,ma si rende conto che in famiglia qualcuno lo fa. Oltre al dolore per la perdita, Anna s’imbatte nella sofferenza di non poter far alcunché per i suoi cari che si bloccano.
Anna viene aiutata a capire che, se si frenano le emozioni si può rischiare di congelarle. «Può» mi chiede pensando ai suoi cari «qualcosa di congelato tornare alla vita?» Certamente si, però ci vuole una fonte di calore per sciogliere quel congelamento. La fonte di calore la si può trovare soltanto dentro di sè, magari con l’aiuto paziente di una persona capace di rinfocolarla.
È importante che la persona che perde il contatto con le proprie emozioni, fino a congelarle, si renda conto di ciò altrimenti rischia il distacco da sé! Anna riesce ad evitare questo processo destrutturante grazie alla sua tenacia e alla sua vera fede nella vita, nella sua professione di medico, in ultima analisi, in Dio! Si, perché per lei la sua professione è un mezzo per terminare la sua esistenza già ricca di senso.
Accorgersi di sè
Una domanda che le si affaccia alla mente dopo poco tempo dalla morte e alla quale presta subito attenzione è: cosa avrebbe voluto lui per il mio bene? cosa mi avrebbe detto di curare con attenzione affinché io non mi facessi mancare le cose importanti?
Anna inizia a prestare attenzione alle risposte relative a ciò che la vita le chiede ora; risposte che le si palesano immediatamente nell’atto di rendere contento il suo amato come se fosse vivo, evitando di trascurarsi e facendo ogni cosa meglio di prima per essere in sintonia con i suoi desideri. Giorno dopo giorno si dedica alla cura di se stessa e si accorge che questo comportamento le offre qualcosa: una risonanza emotiva molto simile a quella che provava quando lui gioiva con lei. Si crea così una comunicazione attraverso tutte le cose che vive durante la giornata.
“Come per l’irreversibile fugacità del tempo, così per la perentorietà della morte, Frankl ritiene che il segreto della soluzione non stia nel ricercarne una motivazione razionale, bensì nell’accoglierne l’appello in termini di responsabilizzazione personale” (Bruzzone, 2001, p. 328). Anna inizia a sentirsi responsabile nei confronti di quanto al suo amato premeva per lei, per il suo benessere. Si scuote e si accorge di sé: amando se stessa ama lui; rimane in contatto col suo desiderio d’amore, quindi con lui.
La fine del cordoglio
Accorgendosi di sé e iniziando a curare la propria persona, Anna pensa “ora basta piangere”! Inizia il tempo del ringraziamento per il dono ricevuto: aver conosciuto e vissuto accanto alla persona amata che solo fisicamente non c’è più.
Pensare al modo in cui è cresciuto, negli anni, il loro amore, nonostante i periodi di distacco dovuti alle necessità professionali, fa riflettere Anna anche sul loro essere stati insieme nell’amore, al loro modus amoris.
“Tale modus amoris è estraneo ad ogni sorta di imposizione, di comando, di commercio. In esso la lontananza dei due amantes non provoca un indebolimento, anzi un rinvigorimento del modus, come pure non ha alcun senso parlare di impenetrabilità nell’amore […]. Infatti, l’asserzione amorosa: “Dove ci sei tu ci sono anch’io”, esprime in modo unico e singolare l’attuarsi totale della dualità dell’Io e del Tu. Inoltre, solamente nell’amore l’Io può liberarsi da ogni legame costrittivo, appunto perché non è possibile essere pienamente se stessi se non si è con un altro, se non ci si costruisce in un “noi”[…]. E poiché nell’amore l’Io non dà qualcosa ad un altro, ma propriamente si dona, […] esso trascende l’individualità e va al di là della paura e della felicità, del dolore e della speranza. E quindi, costituendosi nella dualità dell’amore, i due amantes sanno di superare gli aspetti caduchi e transitori delle realtà terrene e di eternizzare se stessi. L’amore, perciò, è totalmente indipendente dalla temporalità, dalla cronologia, dalle specificazioni limitate e limitanti dello spazio e del tempo, per cui resta immutato ed immutabile anche nella separazione, nella lontananza, nella morte di uno dei due amantes.” (Fizzotti,1980, p.115-116). Avendo avuto Anna, fin da bambina, la sensazione di vivere in Dio e per Dio, ora vive il suo amato come un’opportunità che il sovrasenso le offre “dove ci sei tu ci sono anch’io”. Anna non si deresponsabilizza! Sa che questo sovrasenso è la sua parte spirituale che non frena assolutamente le sue dimensioni psichica e fisica ma, anzi, le completa mantenendo in lei la tridimensionalità che ha sempre percepito importante.
Cosa significa amare
Amare significa volere il bene dell’altra persona, non trascurando se stessi o rinunciando ai propri bisogni, ma protendendosi verso di lei in un atto di volontà affettuoso. Nell’atto di amare esiste un Io che si decide per un Tu e che, nel contempo, si prende cura della propria volontà di significato e un Tu che fa altrettanto; tutto questo in uno spazio sacro di coppia in cui nessun altro deve poter entrare; come a dire: faccio ciò che al Tu piacerebbe che io facessi per me come possibilità e desideri ancora irrealizzati e sento che il Tu fa altrettanto per sè; non per la reciproca autorealizzazione egoistica e autocentrata ma per dare un senso pieno a ciò che conta per ciascuno all’interno della coppia. “L’amore scorge e dischiude nel Tu amato possibilità di valori. Anch’esso, dunque, anticipa qualcosa nella sua visione spirituale; anticipa ciò che una persona concreta, ossia la persona amata, può celare in sé quanto a possibilità personali ancora irrealizzate.” (Frankl, 2001, p. 78). Il rispetto dell’occupare uno spazio all’interno di una coppia e accanto ad una persona sviluppa, nel corso del tempo, la capacità e il piacere di condividere spazi comuni di vita assieme. In questo modo nessuno si lamenta di non poter godere della propria volontà di significato. Ci si rende conto che si realizza l’autotrascendenza proprio quando l’Io, nel realizzare ciò che fa piacere al Tu che si realizzi per l’Io stesso, si crea la gioia e la possibilità di realizzarsi specularmene per il Tu. Non esiste il benché minimo interesse egoistico ma sempre e comunque altruistico e in una circolarità virtuosa.
Se questo non avviene, i due mondi psiconoetici camminano su due binari separati e lontani: non esiste un logos in coppia in cui condividere l’essenza della coppia. Le conseguenze sono il distacco fisico, psicologico e spirituale che allontana sempre più le due persone anche se continuano a vivere sotto lo stesso tetto.
Mentre il Logos di coppia è qualcosa che annulla le due originalità, che deresponsabilizza le due persone (perché i reciproci confini dell’Io si sovrappongono), il Logos in coppia rispettale due unicità e le rende responsabili e libere; è uno spazio comune in cui le due singolarità si sentono libere di rispettare sentendosi rispettate.
È importante che nella coppia si eviti l’autorealizzazione fine a se stessa ma sempre all’interno di un progetto in cui le due persone possano vivere le rispettive esistenze libere di identificarsi nei valori e negli scopi personali. Ci vuole un atteggiamento amorevole che non trascuri mai né i propri bisogni noetici né quelli dell’altra persona e per far ciò è fondamentale che la coscienza di entrambi, come organo di significato, si protenda in uno sforzo continuo, non tanto psicologico (quindi carico di ansia) quanto spirituale, cioè,“aperto ai valori”.
Anna si è chiesta spesso, durante la sua esistenza, “ma io permetto al mio caro di realizzare ciò che desidera davvero per sé?” E nella misura in cui la sua risposta era affermativa (cioè il suo femminino si esplicava in modo oblativo), riceveva due risposte: la conferma che lui riusciva a raggiungere i suoi obiettivi e la chiara sensazione di poter realizzare, a sua volta, ipropri, grazie all’atteggiamento di apertura ai valori di entrambi. In questa dinamica si capisce cos’è la “coscienza come organo di significato che si sforza per amore dell’altro”. E in questo intrinseco moto spirituale avviene ciò che Karl Jaspers scrisse: “Ciò che l’uomo è, lo è attraverso la cosa che fa sua”. Ma questo assunto va completato con: “sempre rispettando ciò che il Tu decide per sé nello spazio di coppia”. La cosa che facciamo nostra è sempre sostenuta e nutrita dai valori personali dell’Io e del Tu che danno alla cosa stessa una pregnanza di senso insostituibile.
L’inizio della vita spirituale grazie alla Logoterapia
Dopo la fine della vita fisica del proprio caro e l’inizio dell’elaborazione del lutto, Anna si impegna a riordinare tutto ciò che le è successo anche se, per la fede che la contraddistingue, sa che non le è possibile capire tutto il mistero della morte. Avverte dentro di sé il piacere di paragonare l’amore incondizionato per suo marito con l’amore incondizionato per Dio. Le vengono in mente le parole di Frankl quando dice “a mio parere, la fede in Dio o è incondizionata o non è fede […] non possiamo contrattare con Dio” (Frankl, 1990, p. 142).
Amare Dio incondizionatamente significa accettare ciò che Lui sceglie per noi, anche la morte. Il senso terreno che noi diamo a questo evento è vincolato al nostro ragionare umano. L’Altro, quello di Dio, trascende il nostro modo di ragionare quindi non ci è dato di capire. L’uomo, quando si mette in ascolto, può capire il senso, mai il sovrasenso!
La perdita è costituita dal dolore per la persona che non c’è più fisicamente e dal timore di riprendere a vivere senza quella persona cara. La domanda sul senso si riaffaccia spesso alla coscienza di Anna: «che senso ha ora la mia vita senza la sua? Come potrò rivisitare i luoghi, incontrare le persone, affrontare le situazioni senza di lui? Cosa mi succederà?» Il senso di vuoto nell’attesa delle risposte è deprimente, ma proprio facendo appello a ciò che Dio ha deciso, è possibile procedere e Anna scrive nel diario che mi legge: «è Lui a chieder-mi questo, è Lui, amore mio, a chieder-ci questo».
“[…] un significato può essere realizzato anche nel dolore […] Vuol forse dire questo che è necessario il dolore per trovare un significato? Sarebbe un enorme fraintendimento. Non penso affatto che il dolore sia necessario, ma solo che il significato è possibile nonostante il dolore, per non dire, anche attraverso il dolore – presupposto che si tratti di un dolore inevitabile, le cui cause non possono cioè essere eliminate o rimosse.” (Frankl, 1990, p.129).
Soffrire per amore di…
L’essere umano non è mai pronto a soffrire ma dovrebbe far fronte alla sofferenza impegnandosi a considerarne la possibilità. L’uomo deve poter maturare un atteggiamento intenzionale in cui non vi è la ricerca della sofferenza fine a se stessa ma il riconoscerla vivendola senza l’autocommiserazione. “Il dolore va inteso, ma sempre e solo per essere trasceso […] il dolore è disumanizzante soltanto se è subìto, mentre se viene accettato in vista di un fine, volgendolo in dono per qualcuno e per qualcosa, consente di realizzare la propria dimensione oblativa, in totale gratuità” (Fizzotti,1993, p.45). Scegliere intenzionalmente di accogliere ciò che il destino ci impone e di trasformarlo in dono, è un atto, un passaggio che trascende noi stessi fino al limite del mistero. Relativamente alla domanda che l’uomo si pone di fronte alla morte del perché Dio abbia creato la sofferenza, “l’unico atteggiamento adeguato all’uomo di fronte alla problematica di una patodicea, o addirittura della teodicea, è quello di Giobbe, che si inchinò davanti al mistero” (Frankl, 2001, p. 136). Se una persona non riesce ad inchinarsi davanti al mistero, è come se perdesse tutto della sua vita passata; è come se percepisse alle sue spalle un baratro, un vuoto incolmabile. Aver vissuto senza aver lasciato tracce è una sensazione terribile che può indurre l’uomo alla depressione, al vuoto, al suicidio. Non è mai così, per nessuno! “permettetemi di sottolineare che qualsiasi cosa abbiamo messo in salvo nel passato rimane là, indipendentemente dal fatto che la guardiamo, e continua a esistere persino a prescindere dalla nostra stessa esistenza.” (Frankl, 2005, p. 157). Dare dignità ad ogni esperienza fatta singolarmente e in-relazione, nobilita ciò che siamo stati anche se dal presente in cui viviamo, correggeremmo quasi tutto.
Soffrire per amore di qualcuno pensando che la propria sofferenza ha evitato alla persona cara la stessa pena, fa pensare alla gioia di patirla; ha un senso profondo e, per amore della persona tanto amata, non la si vuole più evitare. Ed è proprio questa sofferenza subìta ma preferita, a dare eternità al rapporto d’amore che si è solo sospeso in attesa diritrovare lo stesso equilibrio dimensionale: spirito-spirito.
La Spiritualità sapienziale
Pensando alla storia di Anna e a tutte le storie di coppia consolidate in cui sono accaduti fatti significativi, la mente mi ha portato alla sapienza del Qohelet che risuona spesso in me; in particolar modo il versetto «Getta il tuo pane sulle acque correnti: ché, dopo lunghi dì, lo ritroverai!» (Qo 11:1) come a dire: Metti il tuo impegno amorevole nel rapporto con l’altra persona: nel corso del tempo, nei momenti aridi fino a quelli strazianti, risalterà ai tuoi e ai Suoi occhi.
Le “acque correnti” sono da intendere come il fluire del tempo sponsale, in cui due persone si trovano a condividere ma anche a sopportare tutte le cose dell’esistenza. Affidare il pane al flusso della corrente, con la speranza che lo restituisca, significa “lasciare segni tramite comportamenti rispettosi” nel fluire del tempo, sapendo che solo in questo modo, «dopo lunghi dì, lo ritroverai». Quando «il tempo di ridere» lascerà spazio al «tempo di piangere» (Qo 3:4) quel pane, senza più l’acqua, risalterà con tutto il suo significato. «Chi bada al vento, non semina, e chi osserva le nuvole non mieterà mai» (Qo 11:4): soffermarsi solo al contenuto dei diverbi significa non seminare “altro”; chi insiste nel sottolineare l’errore dell’altra persona, non mieterà mai!
Ecclesiaste* associa l’acqua al ritorno (Qo 7:1); esiste un’abitudine tra gli ebrei sefarditi: quando qualcuno parte per un viaggio, la madre versa dell’acqua sulla soglia di casa e fa camminare sopra quell’acqua come buon auspicio di ritorno garantito. Lo stesso concetto emerge da un vecchio proverbio egizio: “fai una buona azione e gettala sull’acqua; quando si seccherà la ritroverai”.
L’intento di Ecclesiaste è duplice: da un lato vuole incoraggiare il rischio: l’acqua significa avventura; non sappiamo dove andrà il pane. Ma significa anche pericolo di scomparsa. Nel pensiero biblico, l’acqua è associata al nulla e al caos (Gn 1:2, Ez 26:19-21). Quando Michea dice che Dio “getterà in fondo al mare tutti i nostri peccati” (Mic 7:19), intende affermare che il Signore perdonerà le nostre colpe. Dall’altro lato, si configura come una promessa secondo cui le buone azioni non andranno perse perché l’acqua ce le restituirà. L’espressione “sulle acque correnti” è associata, nella tradizione biblica, all’evento della creazione (Gn 1:2) e nell’usarla l’autore vuole indicare che Dio, il creatore, ha il controllo. L’ingiunzione “getta il tuo pane sulle acque correnti” è dunque qualcosa di più di un invito alla carità: è un appello alla fede. Vedremo il nostro pane restituito se accetteremo di correre il rischio di perderlo. La fede implica questo rischio! (B.J.Doukhan, p. 152). Ma anche la fede nella coppia implica questo rischio!
Dare il nostro pane al povero (non otterremo nulla in cambio perché lui è indigente): fare questo gesto implica “fare per donare” e non “fare per ricevere”; non sarà un do ut des ma un dono gratuito al fine di aiutare una persona bisognosa.
In coppia, dovrebbe valere la stessa cosa: fare sapendo di fare il piacere dell’altra persona; indipendentemente dal fatto di ricevere qualcosa in cambio.
Nella coppia possiamo calare queste parole tenendo conto dell’importanza del rischio nella fede della relazione! Chi garantisce ad una persona che la vita della coppia sarà eterna? Nessuno! Si tratta quindi di fidarsi di gettare il proprio pane nelle acque esistenziali; si rischia perché la fallibilità del genere umano non offre alcunché di certo.
Mi permetto di fare un parallelo tra Dio e il partner della nostra coppia: se serviamo Dio per guadagnarci il Suo regno, non stiamo servendo Lui ma noi stessi; ci si aspetta sempre qualcosa dai doni offerti a Dio correndo il rischio di perdere la fede non ricevendo ciò che abbiamo chiesto nell’atto del nostro donare. Qohelet ci esorta a dare disinteressatamente senza mai attenderci alcunché in cambio. In coppia esiste però un aspetto meno elevato rispetto a ciò che dovrebbe rappresentare la vera fede in Dio: si fa per l’altra persona perchè sappiamo di farle piacere, di gratificarla, di renderla felice, perché la si ama anche così. Con Dio non vale questo, non dovrebbe valere! Non bisognerebbe accontentare Dio ma interiorizzare comportamenti che diventino l’Io di noi stessi: la nostra tridimensionalità (corpo-mente-spirito) nella trinità di Dio (Padre-Figlio-Spirito Santo); il nostro Io nelle orme di Dio.
Al contrario, nella limitatezza del nostro essere umani, vale più che mai la sapienza di Qohelet che, essendo universale, mi sono permessa di interpretare e adattare al nostro momento storico con «continua a lasciare le tue tracce nell’esistenza di coppia: al momento giusto le ritroverai!». L’eterno femminino del creare, non solo un essere umano ma anche comportamenti autotrascendenti, si trasmuta per rimanere tale anche dopo la morte.
* “Il Qohelet è un libretto di poco meno di tremila parole ebraiche, distribuite in 222 versetti e in 12 capitoli; eppure attorno ad esso si è infittita un’immensa bibliografia, segno di un’attenzione non solo esegetica ma anche popolare. L’ignoto autore, che non esita ad ammantarsi delle spoglie di Salomone, emblema biblico di regalità e di sapienza, si presenta con uno pseudonimo ebraico, Qohelet, che rimanda al vocabolo qahal, «assemblea», in greco ekklesìa, donde il greco-latino Ecclesiastes, divenuto la titolatura comune nell’Occidente cristiano di un’opera che è ancor oggi oggetto di differenti decifrazioni.” (G.Ravasi, 2006, p.5)
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