L’approccio olistico nella cura del malato

 L’approccio olistico nella cura del malato

Olistico significa globale, onnicomprensivo e il titolo di questa relazione si riferisce proprio al fatto che per aiutare una persona è importante considerarla da tutti i punti di vista.  Da quello fisico in quanto l’uomo è costituito da un corpo. Dal punto di vista psichico perché possiede una mente e spirituale in quanto il suo essere si è arricchito anche di bisogni tipicamente ed esclusivamente umani come i significati, gli scopi e i valori esistenziali.

Desidero trasmettervi l’importanza della “riumanizzazione” dell’approccio alla persona malata. Fino ad oggi la medicina tradizionale ha considerato la persona malata un oggetto di studio caratterizzato da uno o più sintomi da trattare in vari modi. Oggi si inizia a sentire  l’esigenza di considerare la persona malata come un soggetto. Questo soggetto è unico, irripetibile e necessita di essere considerato da una prospettiva tridimensionale. La tridimensionalità dell’uomo amplia notevolmente la concezione limitata e limitante dell’uomo possessore solo di un corpo. L’uomo va visto e considerato come realtà all’interno della quale interagiscono sempre e comunque tre dimensioni: il corpo, la mente e lo spirito. Non si può prescindere da queste tre dimensioni quando si parla dell’uomo. L’uomo è una persona, e come tale va sempre considerata da tutte e tre le prospettive. Un buon medico cura le sofferenze del corpo e sostiene anche la psiche della persona che ha di fronte. Un buon psicologo o un buon sacerdote che aiuti a risolvere disagi umani, considererà anche l’importanza, per la persona, di scoprire o riscoprire i suoi valori, significati e scopi; solo così faciliterà il riequilibrio mente corpo. Mens sana in corpore sanosostenevano gli antichi e noi oggi siamo sempre più consapevoli dell’importanza di una mente sana per influenzare positivamente il corpo.

Come mai quando una persona è depressa si ammala più facilmente?  La depressione mentale è strettamente legata al sistema immunitario che è preposto alla tutela della salute. Ora possiamo capire meglio quanto è importante per noi operatori e volontari essere in grado di sostenere empaticamente le persone bisognose. Anche se non siamo medici, psicologi o sacerdoti, possiamo imparare a sostenere le persone, ad interagire con la loro dimensione esistenziale, condividendo gioie e dolori, ad ascoltare in silenzio permettendo loro di liberarsi da fardelli insostenibili. Queste e tante altre cose possiamo imparare per aiutare le persone bisognose d’aiuto. Il cammino di formazione è interminabile perché ogni persona è diversa dall’altra. Ogni persona ci pone di fronte a problemi di “riadattamento esistenziale”; il nostro compito è quindi quello di essere il più possibile, malleabili, adattabili, aperti, pronti a cogliere i vari cambiamenti della persona che ci troviamo di fronte e ad adattarcisi. Anche i problemi sottesi alle varie situazioni di vita…  e di morte, di fronte alle quali ci si trova di volta in volta devono essere affrontati con serenità ed equilibrio. Il volontario serio, che desidera veramente donare, sente il bisogno di formarsi continuamente, di mettersi in discussione con se stesso e con gli altri, di condividere con i compagni di formazione le proprie esperienze emotive, di rinforzare la propria struttura di personalità, insomma! di crescere dentro. Solo un lavoro di formazione costante e continuo nel tempo può permetterci di donare agli altri tutto ciò che, di volta in volta, ci viene richiesto. Il bisogno dell’Altro deve essere percepito subito. Le sue aspettative non devono mai essere disattese. La sua richiesta d’aiuto deve risvegliare in noi tutte le nostre capacità ricettive nell’intento di donare. Donare con l’ascolto, donare con la parola, donare con l’atteggiamento, donare con lo sguardo, donare con la presenza, donare anche con il silenzio. Donando empaticamente diamo la possibilità di percepire la condivisione di tutto quello che la persona vuol esternare a noi. A quel punto si può anche progettare qualcosa insieme. La progettualità sarà costituita da piccole cose che possono però rappresentare sostegni irrinunciabili per le persone che aiutiamo. Scoprire insieme e dare voce a questi piccoli progetti rinforza notevolmente la persona bisognosa, le dà una nuova carica esistenziale: la riconquista della propria dignità di essere umano.

Sentendosi recuperata alla vita, la persona si sente ricollegata al tessuto sociale e familiare e, piano piano, comincia a sentirsi meglio anche fisicamente; quindi, il suo stato psico fisico si autoalimenta verso un miglior equilibrio. Aiutare chi vive il dolore è molto difficile. Bisogna imparare a prestare attenzione al proprio mondo interiore e a quello dell’Altro. Comunicare con lui in modo efficace e significativo richiede molto impegno; presuppone un’adeguata conoscenza e un soddisfacente possesso di se stessi. Senza la presa di coscienza e la necessaria gestione dei bisogni e dei sentimenti che ci abitano, difficilmente possiamo incontrare l’Altro liberamente, evitando cioè di essere condizionati da ciò che blocca a livello emotivo. Solo se si è capaci di fare luce su se stessi e di riconciliarsi con i propri vissuti si può sostenere gli altri. Essere attenti al mondo interiore dell’Altro richiede una capacità di ascolto che è certamente una delle forme più efficaci di rispetto. Base fondamentale su cui si fonda la relazione d’aiuto. L’ascolto è una delle “carezze positive” maggiormente apprezzate dalle persone. Quando una persona si sente ascoltata ha la calda percezione d’essere preso in considerazione e, quindi, di possedere qualche valore. Maper ascoltare l’Altro, bisogna essere in grado di porre il centro dell’attenzione non su se stessi e sui propri bisogni, ma sulla persona che vogliamo aiutare. Ecco perchè è tanto importante affrontare prima i propri bisogni. Come è importante scoprire ed elaborare le proprie paure legate al dolore. Il fenomeno-dolore, anche quello che comunemente chiamiamo fisico, è influenzato da vari fattori psichici. Molteplici sono i fattori che aumentano il dolore: fatica, tristezza, disperazione, depressione, tensione, collera, ansia e paura, incertezza, ipocondria, inattività, isolamento, insonnia, preoccupazioni eccetera. Due, comunque, sono le situazioni emotive che, in modo del tutto particolare, amplificano il dolore: l’ansia e la depressione. Ciò significa che persone ansiose e depresse sentono di più il dolore. L’ansia accompagna e rende più intensi i dolori acuti. La depressione si accompagna di più a dolori cronici. Ma spesso le due condizioni possono convivere. In una ricerca del 1975, Hayward misurò l’ansia di malati uomini e donne, il loro grado di dolore, il loro consumo di analgesici, le loro complicazioni post-operatorie e la durata della loro degenza. L’autore partiva dall’ipotesi che quei malati, ai quali erano state spiegate dettagliatamente prima dell’intervento le tecniche anestetiche e chirurgiche e le sensazioni che si provano prima dell’operazione, avrebbero provato meno ansia, meno dolore e avrebbero avuto minori complicazioni. In effetti, i malati che erano stati informati avevano meno bisogno di analgesici. I malati più ansiosi erano anche quelli che provavano maggior dolore. Ciò che può aiutare il malato ad affrontare meglio la sua situazione di dolore è certamente conoscere le cause del dolore e prevedere come potrà essere controllato. Tutto ciò fa diminuire l’ansia e di conseguenza anche il dolore.  L’ansia anticipa il dolore e lo rafforza. Ne sanno qualcosa i dentisti. Non sono pochi i pazienti che arrivano allo studio dentistico lamentandosi che un terribile mal di denti non li ha lasciati dormire tutta la notte. Improvvisamente, appena mettono piede nello studio dentistico, il dolore sembra sparito. Cosa succede? L’impossibilità di ricevere aiuto durante la notte crea insicurezza e ansia, e il dolore diventa insopportabile. Tutto passa quando si è nel posto giusto e l’ansia se ne va. Anche nella depressione si sente di più il dolore. Ciò è riscontrabile sia dal punto di vista clinico che biochimico. Le sensazioni dolorose, che provengono dagli organi ammalati e giungono al midollo spinale e, da qui, al cervello, trovano nel malato depresso un “cancello” dalle maglie piuttosto larghe. Le sensazioni dolorose sono libere di passare. D’altra parte, il malato depresso si isola dal mondo, è concentrato su se stesso e quindi in attenta posizione di ascolto del proprio dolore. A questo punto possiamo comprendere come la sofferenza del malato non dipenda solo dal dolore fisico, che poi, come abbiamo visto, non è un fatto solo fisico, viene aggravata anche dalle frustrazioni che l’individuo sta vivendo e da tutte quelle emozioni negative che la malattia e i disagi dell’ospedalizzazione si portano dietro. La malattia interrompe l’abituale ritmo di vita, mette in crisi il rapporto con il proprio corpo e con il mondo sociale, è una situazione che fa perdere o modifica il proprio ruolo professionale e familiare. La persona che si ammala vive una specie di “disorientamento della propria identità”. Ha come l’impressione di essere sradicata dal suo terreno esistenziale. Un senso d’impotenza e di solitudine si impossessa del malato, lo rende triste e depresso, specie quando la malattia si cronicizza. Deve fare anche i conti con i sensi di colpa che fluttuano nella sua fantasia. Il dolore del malato, specie del malato morente, è spesso un dolore “totale”. Va oltre la dimensione fisica, ed è perciò importante saperlo gestire in tutte le sue dimensioni: fisica, psicologica, sociale e spirituale. Non sempre gli operatori sanitari e i volontari sanno farlo. Il dolore nei suoi aspetti fisici è la più ovvia e la maggiore causa di sofferenza. Esso danneggia le funzioni fisiche, l’umore e l’interazione sociale. Questo tipo di dolore ha il chiaro compito di avvertire che qualcosa non va nel funzionamento del corpo. Ma quando interessa tutta la persona, il dolore può facilmente oltrepassare la sua funzione di segnale. Un dolore grave può portare una persona a chiedere che esso venga rimosso a qualsiasi prezzo, addirittura a richiedere la morte. Il dolore psicologico è legato all’insicurezza e a tutte quelle emozioni negative che nascono dalla presenza del fantasma della morte, dal perdere il controllo della propria vita, mentre sogni e speranze se ne vanno in frantumi. Il dolore ha anche dimensioni sociali: è il dolore dell’isolamento, del dover dipendere dagli altri, del dover ridefinire le proprie relazioni, della perdita del proprio ruolo lavorativo e sociale. La difficoltà di esprimere ciò che si sta esperendo mentre si muore crea un senso di solitudine proprio nel momento in cui si ha più bisogno di compagnia. La non volontà o l’incapacità degli altri di far visita ai morenti non fa che aggravarne il senso d’isolamento. Il dolore spirituale nasce dalla perdita dei significati, degli scopi e dei valori. Ogni persona ha bisogno di un quadro di significati propri e di sentirsi parte di una comunità che li condivida. La sofferenza dell’uomo di oggi, quella che più crea disagio e a volte disperazione – ci ricorda Viktor Frankl – è la sofferenza di sentire che “la propria esistenza non ha alcun senso”. E se questa sofferenza è presente nel malato, una grande frustrazione lo attanaglia. Gli aspetti fisici, psicologici, sociali e spirituali del dolore sono interrelati e a volte è difficile distinguerli. Specie nel dolore cronico essi si rinforzano reciprocamente ed entrano facilmente in un circolo vizioso che si ripete all’infinito. Inevitabilmente il dolore ricorda al paziente la gravità della sua malattia e così aumenta la sua angoscia. Un dolore che non riceve sollievo può portare non solo alla depressione e alla collera, ma a chiedere la morte per se stessi o per i propri cari. Le suppliche del malato terminale che a volte chiede la morte non devono essere interpretate come un vero e proprio desiderio per l’eutanasia o per il suicidio assistito. Piuttosto esse sono, con maggior probabilità, angosciose suppliche per un efficace sollievo dal dolore, un grido di aiuto per una migliore cura, un forte desiderio d’amore.

Ha bisogno di sentirsi “collegato”, ascoltato e capito nella sua esperienza di dolore: solo allora le sue emozioni possono essere elaborate e il sentimento di isolamento si dilegua. Può così riprendere a percepire il sentimento d’integrità, di completezza, di appartenenza, sentendosi inserito in un orizzonte esistenziale più vasto. Nei nostri rapporti con il malato noi veicoliamo continuamente le nostre paure ed emozioni. Tutto ciò che viviamo passa nelle nostre comunicazioni e diventa “contagioso”.  Ricordo un episodio molto significativo vissuto durante un lavoro di gruppo con familiari di pazienti sieropositivi. In questo gruppo era presente anche un ragazzo in AIDS conclamata. Ho permesso a questo ragazzo di partecipare all’incontro in quanto lo conoscevo oramai da anni e sapevo che aveva elaborato molto bene con me la sua morte. Si stava parlando dei rapporti tra una madre (presente in quel momento) e suo figlio depresso e tutto il gruppo (evidentemente per non mettere a disagio il ragazzo presente) parlava in termini generici, senza mai menzionare situazioni inerenti l’AIDS.

A sbloccare la situazione di imbarazzo è stato proprio questo ragazzo che, con occhi dolcissimi contornati da un volto oramai scavato dalla malattia ha esordito così: “forse, signora, suo figlio ha bisogno di parlare della morte, se lei fa finta di niente lui non si sente compreso…provi ad aiutarlo…” Il silenzio che ha seguito questo intervento è stato intenso per la commozione suscitata in ognuno di noi. Io ho pianto dentro di me, non di tristezza ma di gioia perché ho capito che quel ragazzo stava bene interiormente. Sapeva di dover morire di lì a poco però sentiva anche di aver vissuto pienamente la sua vita, di aver lasciato delle tracce negli affetti familiari, ma soprattutto di aver vissuto intensamente la sua morte.

Approccio tridimensionale alla persona sieropositiva al virus dell’aids.

La vita della persona sieropositiva cambia radicalmente dal momento in cui le viene comunicata la diagnosi di sieropositività. All’improvviso tutto cambia, crolla ogni certezza di vita, subentrano vissuti d’ansia e d’angoscia, si fanno strada le fantasie di morte imminente, si vive un repentino blocco della progettualità, i disagi e i sintomi neurovegetativi si fanno prepotenti e il paziente, depresso, avverte farsi incontro l’apatia.

Come conseguenza, in risposta a questi disagi, il paziente mette in atto una serie di meccanismi di difesa dell’Io molto ben evidenziati dalla Kubler Ross (1) (reazione di Rifiuto- Collera-Patteggiamento-Depressione-Accettazione).  Dal punto di vista psicologico il paziente si ammala proprio nel momento in cui si sente comunicare la diagnosi. Nessuna malattia possiede, come l’AIDS, un indice di predittività (la sieropositività) così precoce, ma anche così incerto. A tutt’oggi si ritiene che il 30% dei sieropositivi sviluppi AIDS entro cinque anni e il 50% entro otto-nove anni. (2)

Un altro meccanismo di difesa è la Negazione, per cui il paziente nega ciò che gli è stato comunicato, si distanzia a tal punto, da rifiutare la terapia farmacologica, rimuove da sè tutto ciò che riguarda la sieropositività fino al punto, in certi casi patologici, da mettere a repentaglio la propria e l’altrui vita. Questi soggetti possono anche ostentare comportamenti sessuali sconsiderati, sottovalutando l’importanza delle precauzioni da usare per salvaguardare la salute degli altri. La reazione opposta vede il paziente talmente turbato da esagerare i comportamenti precauzionali nei confronti dei famigliari, non manifestando più alcun tipo di slancio affettivo per paura di contagiare. Questo avviene soprattutto nei confronti dei bambini che vivono in casa.  La Negazione non è sempre accompagnata da atteggiamenti di aggressività verso gli altri o verso di sè, ma può sconfinare nell’isolamento regressivo con caduta dell’autostima, sentimenti di colpa, ambivalenza emotiva, cambiamento dello stile di vita con conseguente aumento dei bisogni di supporto affettivo (3). E’ importante che questo silenzio interiore non venga sottovalutato ma considerato come un chiaro messaggio di esigenza d’aiuto. Questo silenzio parla più chiaramente di qualsiasi parola! E’ un’urgente necessità di sostegno.

Tutto il lavoro iniziale di supporto psicologico mira al raggiungimento di un obiettivo: l’Accettazione della nuova condizione. Raggiunta la fase dell’Accettazione, spiego al paziente cosa avviene all’interno di un corpo che deve far fronte a fonti stressogene interne ed esterne non possedendo più il sistema immunitario integro. Spiegando ciò utilizzo una comunicazione il più possibile neutra e accettabile evitando di usare termini che lascino intravvedere l’ineluttabilità della morte. Mi esprimo come se la sieropositività fosse una nuova condizione a cui riadattarsi.  Spiegando l’importanza del mantenimento dell’equilibrio psicosomatico, la persona comprende l’utilità della distensione muscolo-nervosa al fine di ripristinare al meglio la comunicazione tra il sistema nervoso centrale (S.N.C.), il sistema endocrino (S.E.) e il sistema immunitario (S.I.) (4). Oltre a capire l’importanza del dialogo cervello-corpo, il paziente scopre i benefici che gli derivano dal dialogo mente-corpo (5).

I rapporti tra fattori psicosociali e sistema immunitario sono da tempo studiati. Essi si realizzano essenzialmente attraverso l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e godono di un vasto sostegno sperimentale nell’animale e nell’uomo. Studi recenti hanno dimostrato la presenza di fibre del sistema nervoso autonomo (quello che trae vantaggi dal training autogeno) a livello degli organi linfatici primari (timo, midollo osseo) e secondari (milza, linfonodi e tessuto linfatico associato all’intestino). Queste fibre noradrenergiche sono in stretto rapporto con i vasi sanguigni e con elementi cellulari specifici, come linfociti e macrofagi, i quali possiedono recettori adrenergici sulla loro superficie.

La presenza di queste fibre nervose adrenergiche a livello degli organi linfatici permette al sistema nervoso centrale di inviare segnali alle cellule del sistema immunitario influenzandone la risposta (6). Ad esempio, un agente stressogeno come la depressione o un disagio psicofisico può inibire la risposta immune alterando alcuni parametri immunologici. E’ importante che il paziente, oltre a capire queste correlazioni, si senta motivato al cambiamento. Oltre a ciò è fondamentale che il paziente creda nello psicoterapeuta quindi che si crei una buona alleanza terapeutica. Quando poi avverrà il primo cambiamento la persona sarà ancora più motivata.

Di solito utilizzo cartelloni esemplificativi per memorizzare visivamente il S.N.C., il S.E. e il S.I. Utilizzo poi il modello di Selye spiegando la fisiologia dello stress per cui lo “stressor” (ansia, angoscia per la sieropositività, ecc.) attiva alcune aree specifiche dell’ipotalamo che inducono la secrezione di ACTH e di ormoni corticosteroidi. Questi causano involuzione del timo, atrofia dei linfonodi, inibizione delle reazioni infiammatorie ed ulcere acute gastroduodenali (7). Si aggiunge, quindi, ad un sistema immunitario già depresso a causa del contagio del virus, un ulteriore sovraccarico dovuto agli stressor esterni (psicosociali) ed interni (risposte psichiche). Quando il paziente comprende la correlazione tra l’agente stressogeno e la modificazione dell’assetto linfocitario del S.I., si sente motivato e si attiva. Già dopo poche sedute di training autogeno per la sedazione dell’ansia la persona si sente meno depressa, più ottimista, più calma e desiderosa di continuare il percorso logoanalitico.  La presa di coscienza dell’interrelazione corpo- mente stupisce a tal punto il paziente da creare il lui quella curiosità così salutare nelle patologie a prognosi infausta. L’analisi esistenziale permette di considerare l’unitarietà mente-corpo inscindibile dall’aspetto noetico dell’individuo. La sfera noetica inerisce tutto il mondo spirituale dell’essere umano: i valori, gli scopi ed i significati dell’esistenza del singolo. Solo quando la persona riprende a riprogettarsi alla vita, si autodistanzia dal problema della sieropositività. Come è importante mantenere l’equilibrio omeostatico a livello biochimico e a livello psichico, è altrettanto importante che l’aspetto noetico non raggiunga mai l’equilibrio. Quando ci troviamo di fronte ad una persona che dice di non sentire più il bisogno di progettare, neanche a breve termine (malato terminale, anziano), capiamo che quella persona si sta spegnendo: nulla più la sprona a vivere. Il rischio è la nevrosi noogena (nevrosi da perdita del senso) fino alla depressione o alla morte. La l’analisi esistenziale deve adattarsi, di volta in volta, non solo alla singola persona, ma anche al singolo stato d’animo della stessa persona.  Soprattutto nelle persone sieropositive e in AIDS conclamata si notano cambiamenti repentini a livello immunitario e, la consapevolezza di ciò, causa un logorante vissuto che crea altalenanza d’umore.  Il denominatore comune è rappresentato dal fantasma di morte sempre presente in questi soggetti (8). Ogniqualvolta questi fantasmi si fanno sentire un pò meno, si osserva una modificazione della comunicazione non verbale: la deambulazione è più calma, lo sguardo più presente e brioso, la mimica più morbida e tutta la persona più serena. È a questo punto che la logoanalisi può incidere di nuovo ma deve farlo in modo tale da rinforzare il paziente per la ricaduta che avverrà più in là.  Con l’ausilio di disegni il paziente capisce che tutti e tre i nostri sistemi vitali biochimici (somatici) sono  intercorrelati e dipendono sempre dalla sfera emotiva (psichica) e dalla sfera noetica (spirituale). Man a mano che procedo cerco di affrontare le ansie, le paure legate alla sieropositività ma anche i conflitti irrisolti del passato che causano, ancora oggi, dei problemi.  Nei casi più felici, la persona, pur essendo consapevole del significato della sieropositività, riesce a scoprire il vero senso della sua esistenza e questo permette diapprofondire la gamma dei suoi valori, di guardare il suo orizzonte noetico, di prefiggersi degli obiettivi da raggiungere (10). Credo che questo processo debba maturare spontaneamente, come quando si suggerisce di “lasciare che accada l’autogenia” durante l’esperienza del training autogeno. Solo se il risveglio del senso avviene spontaneamente si sviluppa il cambiamento, altrimenti subentrano delle forzature e si creano delle illusioni che, sopratutto in queste persone, possono causare pericolosi bourn-out. Ritengo che considerare la persona senza la sua dimensione noetica significhi limitarla, considerarla soltanto un corpo portatore di sintomi, significhi depauperare la persona togliendole il significato più importante che la fa sentire unica e irripetibile nella sua dignità umana.

Caso di un paziente sieropositivo portatore di condilomi anali.

Mi viene inviata da un medico dell’ospedale di Treviso una persona sieropositiva al virus dell’aids  con diagnosi di condilomatosi interna e perianale. Il paziente si rifiuta di sottoporsi ad intervento chirurgico.  Questa persona di 23 anni, omosessuale, presenta inoltre una serie di manifestazioni psicosomatiche tipiche dello stato d’ansia (tensione muscolo-tensiva, tachicardia sudorazione, insonnia e calo della libido).

Instauratasi fin dall’inizio una buona alleanza terapeutica, percepisco una forte motivazione al cambiamento della patologia in atto. Spiego al paziente che la condilomatosi è una patologia virale recidivante. Ciò sottende l’impegno di un costante lavoro per evitare la recidiva. Dall’anamnesi emerge intanto che, dal punto di vista psicologico, esiste un forte conflitto edipico che preferisco, in questa fase, “coprire” piuttosto che “scoprire” in quanto il paziente è già sovraccarico di problemi. L’aspetto noetico non è stato intaccato dalla sieropositività e questo mi fa ben sperare. Analizzate le tre sfere (fisica: patologia condilomatosa da risolvere; psichica: l’Edipo mal risolto; spirituale: scopi, significati e valori non intaccati) procedo con le prime sedute di training  autogeno per sedare l’ansia. Dopo circa due mesi, intraprendiamo un percorso di autoipnosi con metafore inerenti lo “sblocco di un passaggio” (l’ano ostruito dai condilomi).  Fissiamo la data del primo controllo medico in modo da stimolare il paziente al cambiamento della situazione patologica. Dopo dieci sedute lo invio allo stesso medico accompagnato da una lettera in cui chiedo un controllo della situazione. La risposta scritta mette in evidenza che la condilomatosi è notevolmente regredita ma nel canale profondo dell’ano è ancora visibile.

Ulteriormente motivato per i risultati ottenuti, il paziente riprende con ancor più entusiasmo: programmiamo insieme delle metafore più incisive che il paziente esegue regolarmente due volte al giorno. Dopo altri due mesi, a visita avvenuta, il medico mi invia una lettera in cui specifica che l’ano si è definitivamente liberato dai condilomi e il paziente è guarito. Spiego, a questo punto, l’importanza di intraprendere un’autoterapia di mantenimento solo un paio di volte alla settimana, cosa che il paziente accetta di buon grado. Questa persona è in fase di follow up oramai da due anni e mezzo, non ha mai avuto recidive e questo è un risultato straordinario perchè i pazienti operati chirurgicamente devono sottoporsi ogni cinque o sei mesi ad ulteriori interventi. Il paziente si è reso conto di quanto sia importante credere nella potenzialità del proprio “guaritore interno”: solo avendo fede si modifica il corpo, si calma la mente e si allargano gli orizzonti noetici. Dopo questo successo il paziente ha voluto affrontare anche i conflitti edipici che gli creavano paure ed ansie profonde. Ha capito che il rifiuto inconscio alla penetrazione anale si era convertito nel soma generando una vera e propria barriera.  Solo affrontando la patologia dal punto di vista psicologico è stato possibile rendere efficace l’autoipnosi metaforica.  L’autoipnosi tradizionale avrebbe potuto generare un forte stato d’ansia in quanto i messaggi diretti ed espliciti sarebbero stati filtrati dalla logica.

Solo a questo punto abbiamo ampliato l’orizzonte noetico considerando il senso della vita del paziente, la sua progettualità e i suoi valori esistenziali. Attualmente è impegnato in un ambito lavorativo in cui svolge un’attività con mansioni più consone alle sue competenze e, anche se i valori clinici dell’assetto linfocitario sono altalenanti (come in tutti i soggetti sieropositivi), lui crede fermamente nelle sue capacità, si sente più forte interiormente e ha capito che può attingere alle sue potenzialità ogniqualvolta deve affrontare delle difficoltà fisiche, psichiche e spirituali.

                   Bibliografia

1) Kubler-Ross E.: La morte e il morire. Cittadella Editore 2) Grillone V. Davanzo G. Fassino S.: AIDS, prevenzione, cura, assistenza. Edizioni Camilliane 1991. 

3) Pinkus L. Psicologia del malato. Edizioni San Paolo 

4) Pancheri P.: Stress, emozioni, malattia. Introduzione alla medicina psicosomatica. Edizioni Mondadori. 

5) Gazzaniga: Stati della mente stati del cervello. Giunti Ed 

6) Grillone V. Davanzo G. Fassino S.: AIDS, prevenzione, cura, assistenza. Edizioni Camilliane 1991. 

7) Bottaccioli F.: Psiconeuroimmunologia. La grande connessione tra psiche, sistema nervoso, sistema endocrino e sistema immunitario. Edizioni Red. 

8) Lukas E.: Dare un senso alla vita. Cittadella Edizioni. 9) Locke e Colligan: Il guaritore interno. Ediz. Giunti. 10) Giordano P.: Logoanalisi. Citta Nuova Edizioni.

Sommario 

Il presente lavoro sottolinea l’importanza dell’approccio tridimensionale alla persona sieropositiva al virus dell’aids (fisico, psichico e noetico) e le risposte del corpo agli agenti stressogeni. La modificazione fantasmatica determina una risposta a livello tridimensionale.