Dott.ssa Magda Maddalena Marconi
Psicologo-Psicoterapeuta Libero Professionista
Docente di Logoterapia e Analisi Esistenziale
Dall’Incomprensione all’Autocomprensione.
Questa breve elaborazione cerca di offrire uno spaccato di ciò che noto, spesso, durante le sedute di counseling e di psicoterapia: in particolar modo il vissuto dell’incomprensione inteso come moto interiore psiconoetico che ‘impalca’ in termini peggiorativi, le sofferenze della persona che chiede aiuto.
Comprendere (dal latino com-prehendere è composto da Com=Cum insieme e Prehendere prendere, cioè prendere insieme; contenere in sé; fig. abbracciare con la mente le idee; afferrare con l’intelletto, cioè intendere appieno) significa anche penetrare, entrare, decodificare il disagio dell’Altro cercando di abbracciare con la mente le sue idee quindi anche la sua pena, sempre rimanendo distanziati per non cadere dentro i confini dell’Altro.
La sovrapposizione Io-Tu, causata dalla caduta nei confini dell’Altro, crea una fusione malsana in cui una delle due persone viene ‘conculcata psichicamente e noeticamente’ e la persona che crea la coercizione, alla lunga, cede per eccesso di tensione.
Nell’autentica comprensione, al contrario, l’Io aiuta l’Altro salvaguardando i luoghi
personali mentali e spirituali reciproci.
Nella misura in cui l’Io cum prehende senza fondersi nel Tu, riesce a comprendere
sinceramente. Va da sé che il non comprendere presume l’incapacità di abbracciare con la mente il disagio dell’Altro. Questa dinamica va vista dalla prospettiva di colui che è incapace di comprendere e da quella di colui che percepisce questa incapacità e ne soffre.
Scheler elabora importanti considerazioni sulla nozione del comprendere. “A Scheler tale nozione serve per fondare i rapporti umani – che sono poi quelli per cui l’io riconosce l’altro io – non su una inferenza o sulla proiezione che l’io faccia delle proprie esperienze interne nell’altro, ma sulla base dei fenomeni espressivi. Così Scheler afferma che “l’esistenza delle esperienze interne, dei sentimenti intimi degli altri, ci è rivelata dai fenomeni di espressione: cioè ne acquistiamo la conoscenza non in seguito a un ragionamento, ma in modo immediato, mediante una “percezione” originaria e primitiva.”
Non è quindi un ragionare su ciò che l’Altro avverte e trasmette, ma un lasciar fluire alla coscienza il proprio mondo di emozioni per facilitare la comprensione emotiva. “Quest’ultima dev’essere, secondo Scheler, distinta dalla fusione emotiva perchéimplica l’alterità dei sentimenti. Per esempio, la sofferenza del mio vicino
e la mia comprensione simpatetica di essa sono due fatti differenti, e questa differenzaappunto stabilisce la possibilità della comprensione: mentre non ha niente a che fare con questa il fatto che io e il mio vicino soffriamo della stessa sofferenza”.
Dalla prospettiva di colui che è privo di questa risorsa, non vi è sofferenza ma una sorta di torpore noncurante, di insensibilità inconsapevole che mantiene la persona molto staccata dall’Altro che soffre o che gioisce. In realtà non si tratta tanto di incomprensione quanto di
non comprensione perché l’incomprensione ha in sé il concetto del comprendere quindi
inerisce la possibilità che, in alcuni casi, esso si risvegli. La non comprensione è proprio
l’irrealizzabilità di avere a disposizione varie possibilità. Colui che non comprende si trova
nella posizione di chi non riesce a capire, di chi è fermo, probabilmente di chi nemmeno si
rende conto di essere fermo; è la persona che non riesce ad uscire dal suo egocentrismo e ad
entrare empaticamente nel mondo dell’altro pur tutelando i propri valori. Può vivere, certo!
ma non riesce a condividere cioè a dividere-con l’Altro ‘qualcosa’, dalla più piccola alla più
intensa.
Non riuscire a comprendere è un limite psiconoetico che si spiega con una incapacità
psichica di ragionare sulla sofferenza umana ma, soprattutto, sull’incapacità noetica di
cogliere empaticamente il modo di percepire la sofferenza dell’Altro.
Entrare nella visione del mondo della persona che soffre non può prescindere da ambedue
le possibilità che, almeno il professionista, dovrebbe sentire di possedere. Essere privi di
queste due forme di sensibilità (psichica e noetica) si manifesta in atteggiamenti molto
evidenti agli occhi di un esperto e il maggior esperto, in questo caso, è il paziente-cliente
che coglie immediatamente l’inadeguatezza del professionista.
La comprensione e l’incomprensione ineriscono la presenza o l’assenza dell’intuizione
noetica (dello Spirito) la quale “si definisce come un abbracciare insieme unitariamente gli
elementi della situazione esistenziale, legandoli a sé con le ragioni del cuore, facendoli
propri, assimilandoli, rielaborandoli dopo averli posti in relazione con i propri oggetti di
riferimento intenzionale.” (P.Giordano, 1992, p.14).
Se la persona è priva di questa capacità, è priva anche di responsabilità quindi non è libera
di poter vivere il senso e il valore della comprensione.
Mi sta molto a cuore far convergere, da varie prospettive, la Psicoterapia, il Counseling
Filosofico e l’Analisi Esistenziale senza mai dividerle né tralasciarne alcuna. Il Counseling
Filosofico lo situo, di proposito, al centro in quanto, per me, collante irrinunciabile
all’approccio integrato che voglia essere il più malleabile ed adattabile alla situazione
personale della persona che chiede aiuto. Quando esprimo il concetto da varie prospettive,
non intendo analizzare da punti diversi e a se stanti (elencare cioè una serie di approcci
psicoterapeutici come se ognuno di essi fosse depositario della verità assoluta), ma da
un’unica angolatura dalla quale posso percepire di avere tra me e la persona, varie lenti
versatili, per metterla nella condizione migliore di nascere o di rinascere alla vita, alla sua
vita. Nessuna psicoterapia ma, oso dire, nessuna comunicazione seppur minima tra due
esseri umani, può prescindere dall’atto mentale di mettere in campo (relazionale) scambi
filosofici intesi come possibilità di ampliare atteggiamenti più saggi verso se stessi e il
proprio mondo relazionale-sociale.
“Anche il far chiacchiere, dunque, non sembra potersi ridurre ad un semplice
“parlare di cose che riguardano altri”. Si è rilevato…che ogni chiacchiera parla anche dei
bisogni dell’individuo che la usa: bisogni di relazionarsi con gli altri, ora in un
atteggiamento di apertura e di confronto, ora in un atteggiamento di dominio; bisogni di
sapere, di conoscere, ora per soddisfare la propria curiosità, ora per capire meglio se stessi e
gli altri; bisogni di liberare le proprie emozioni, di vivere sensazioni di benessere sociale, di
ironizzare sulle debolezze umane. Si è rilevato anche che la chiacchiera può manifestare la
propria ricerca di riconoscimento sociale, la propria richiesta di stima e di approvazione,
l’esigenza di affermare i valori dominanti della società.”(A.L.Comunian, 1988, p. 120).
Non è possibile prescindere dall’atto del filosofare in quanto, anche se lo scambio verbale è
soltanto una chiacchiera, si basa pur sempre su una trasmissione e ricezione di messaggi
verbali. La qualità di questi messaggi è appannaggio di due interlocutori che decidono, più
o meno consapevolmente, di dare spessore all’eloquio fino a raggiungere livelli elevati di
saggezza oppure restando su un piano di frivolezza divertente.
Se prestiamo attenzione ai discorsi che avvengono tra due persone prive di titoli
accademici ma ricche di esperienza e di saggezza, restiamo incantati nel notare quanta
assennatezza alberga nei discorsi di quelle persone, magari grezze nel comportamento ma
di sottile discernimento. Anche lì radica il pensiero filosofico, anzi, spesso proprio lì, tra
quelle persone che, a contatto con il mistero della natura, scoprono nel silenzio, scandito
dai suoni della quotidianità agreste, la possibilità d’intravedere le grandi risposte.
“La saggezza noetica non è la conoscenza articolata e completa della propria interiorità,
bensì la saggezza del cuore pascaliana, il sapere fondato sulle emozioni intenzionali”… “la
saggezza del cuore non è spinta coscienziale, poiché si ridurrebbe ad una brutta copia del
Super Io freudiano, ricadendo nel determinismo psicoanalitico. La libertà responsabile che
la caratterizza la colloca a metà strada tra il determinismo freudiano e l’indeterminismo
sartriano, che pone l’uomo come creatore dei valori e del senso, nonché della sua stessa
essenza.” (P.Giordano, 1992, p.17).
Sostengo che l’imperante tendenza a strutturare modelli d’intervento che puntino sul
sintomo o su una patologia o su un disturbo psicosomatico o su un modello famigliare o su
una parte di un tutto, sia non solo dannoso alla persona che chiede aiuto ma anche
irrispettoso della sua tridimensionalità che vede nel corpo, nella mente e nello spirito di
quella persona, tutta la sua ontologia indivisibile. Esiste un primato tra l’essenza e
l’esistenza? No! Credo che esista il primato della persona che abbiamo di fronte non della
teoria che abbiamo interiorizzato. “Per accedere alla forma delle esperienze psichiche è
necessario conoscere come esse vengono vissute dal soggetto. Nell’ambito delle scienze
dell’uomo diviene necessario, pertanto, uno sforzo di immedesimazione, di intuizione e di
partecipazione nelle esperienze dell’altro per poter rivivere e comprendere gli accadimenti
psichici che si intendono esaminare. Questo, liberandosi dai vincoli imposti da rigidi
modelli interpretativi ed esplicativi che rendono l’uomo il contenitore di generali e
aspecifici meccanismi psichici” (L.E. Berra, 2006, p.142).
Nel rispetto dell’originalità della persona che chiede il nostro aiuto, ritengo sia importante
calarsi quanto prima, possibilmente fin dal primo minuto di incontro, nell’urgenza che la
persona manifesta rispetto alla sua essenza e alla sua esistenza. Com’è la persona che
soffre, non solo cos’ha; come vive il suo essere gettata nel mondo, non solo cosa fa; come
percepisce i riscontri che il mondo esterno le offre (o le impone), non tanto cosa le viene
offerto. Quale delle due frena l’altra? L’essenza o l’esistenza? Come a dire: il mio modo
d’essere modifica ciò che il mondo in cui vivo mi offre (le relazioni e i fatti che accadono),
o è ciò che il mondo mi offre a modificare, quindi a influenzare il mio modo d’essere? E
quando lo capisco, come procedo se ho a disposizione soltanto la risposta? E poi, la risposta
è mia o la attingo dal mondo esterno? Ecco, allora, la frequente situazione di disagio
esistenziale. Fintantoché non ci si concede di ‘raggiungere la nostra saggezza’, è
impossibile scoprire e mantenere in vita la nostra Weltanschauung, la nostra visione del
mondo, il nostro tutto inserito nel tutto esistenziale. “…si può dire che quando il
consultante ottiene più saggezza, diventa capace di rapportarsi a se stesso e al suo mondo
da una prospettiva che è più critica, ampia e profonda. Per prospettiva più critica intendo
una prospettiva che include una consapevolezza della possibilità di presupposizioni,
credenze e linee di pensiero nascoste o discutibili o involute, e cerca di esporle e di
indagarle, invece di prenderle per buone. Profondità qui significa che la prospettiva include
una varietà di considerazioni, oggetti di discussione e modi alternativi di approccio alle
questioni in gioco. L’idea non è solo comprendere molti dettagli, ma anche come essi si
connettono in reti complesse, ossia in ciò che potrebbe essere chiamata una visione del
mondo. Per profonda intendo una comprensione di idee (principi, concetti, presupposti,
questioni ecc.) che sono basilari o fondamentali per l’argomento investigato. Così,
filosofare, nel senso stretto impiegato qui, è un tentativo di sviluppare un atteggiamento più
saggio verso la propria vita e il proprio mondo, cioè a dire, una disposizione più critica,
meno ristretta e più profonda verso questioni basilari della vita. Le nozioni di filosofare e di
saggezza sono, in questo senso, intimamente connesse.” (R.Lahav, 2004, p.83).
Sentirsi incompresi. E’ questo il paradigma nel quale cerco di entrare per districarmi a
vantaggio della persona che si presenta a me e nel quale si trova prigioniera, magari
dall’età infantile! Paradigma inteso come simbolo-specchio di qualcosa che ha urgenza di
essere compreso, di essere svelato e portato alla coscienza per sentirsi ben individuati, ben
collocati nel mondo proprio, ma anche nel mondo reale, quello esterno, quello storico che
corre, che muta, che affanna ma che offre anche opportunità di adattarsi, di vivere, di
scoprirsi, di scoprirsi capaci per un progetto di vita.
Sentirsi incompresi
Quante volte riscontro che nelle espressioni (verbali e non) della sofferenza che le persone
comunicano, rode il sentimento dell’incomprensione e quanto quest’ultimo mini non solo
l’autostima ma la dignità del motivo della sofferenza? Tante, tantissime, direi sempre!
Generalizzare non si può e non si dovrebbe, ma in questo caso è proprio così. Ed è per
questo motivo che, decidere di entrare in uno studio di psicoterapia con la speranza che il
professionista comprenda, è un bisogno profondo, una richiesta di aiuto che non tutte le
persone riescono a concedersi.
Incompreso nel mio essere così, nel mio essere disturbato da qualcosa che viene definito
‘patologia’; non capito, indecifrato, ignorato per quella parte che infastidisce gli altri, anche
i miei cari; non apprezzato per come mi presento agli occhi degli altri. L’incomunicabilità
che si crea fra me e gli altri, chiude, strozza, fagocita la mia persona nelle maglie del ‘ma
cosa vuoi che sia…sapessi io quanto ho sofferto’ oppure ‘tutto deve funzionare
perfettamente’ soprattutto agli occhi del mondo esterno.
“Sa, dottoressa, mi tengo dentro tutto ma sto malissimo, non posso esprimere i miei disagi
perché nessuno mi capisce”. Questa è la frase che spesso anticipa l’esposizione della causa
di quei disagi.
L’incompreso riceve messaggi di chiusura relazionale, di misteriosità che conduce in
meandri concettuali in cui non può far altro che pensare ‘ma come fa a non capire?’
Le persone che soffrono di disturbi d’ansia e che non possono permettersi di parlare dei
loro disturbi sono, ahimè, la maggior parte di coloro che soffrono! Il fatto di non poter
parlare liberamente li mantiene in una voragine di pena che è peggiore della situazione
emotiva di coloro che tentano di parlare ma ricevono soltanto critiche, interpretazioni e
denigrazioni svilenti.
Sentirsi incompresi si colloca fra due necessità: la nascita come causa e la morte come
effetto come. Non intese come nascita e morte ontologiche ma come necessità immanenti,
intrinseche al disagio umano. Tra queste due necessità esistono molteplici possibilità che la
persona che soffre ha la facoltà di scoprire in sé e fare sue. La causa, ovvero ciò che
alimenta il problema, è l’atteggiamento che il mondo esterno assume (proprio non
comprendendo) nei confronti della persona che soffre (la sua vita di relazione che
condiziona con atteggiamenti di critica). L’effetto-morte è quasi sempre la depressione.
Come è possibile che una persona che non si sente compresa possa uscire dal suo disturbo
d’ansia ed evitare la depressione?
Ma, allora, possiamo affrontare questi problemi senza filosofare? Credo proprio di no! Ogni
tema che implichi il passaggio di informazioni tra due o più persone, soprattutto quando
esiste il bisogno di ricevere aiuto, passa attraverso il filosofare e nessuno lo può negare.
Quando però la visione del mondo di chi lamenta un disagio non viene considerata degna di
ascolto, il senso di incomprensione prende il sopravvento e chiude la comunicazione e, con
essa, la speranza di sentirsi ascoltati. Si crea un vero e proprio divario, uno scarto penoso
tra le due persone che non riescono più ad interagire nel rispetto del problema ma…
nemmeno nel rispetto reciproco. Perché reciproco? Perché anche colui che si trova nella
posizione di poter prestare aiuto, è legittimato a farlo e, soprattutto, dovrebbe poterlo fare.
L’unicità della visione del mondo, la Weltanschauung, non è soltanto cogliere con i propri
sensi il mondo esterno, ma è, soprattutto, vivere le emozioni più profonde, quel sentire con
l’anima, col nostro modo d’essere, col tutto di noi che ci conduce verso una consapevolezza
solo nostra quindi originale e sempre nei confronti del mondo esterno, incomprensibile agli
altri. Come si può pensare, allora, di evitare l’incomprensione? Rischiamo di scivolare in
una trappola intellettuale. L’incomprensione ha in sé molteplici significati ma vediamo, per
ora, il rischio molto comune di sentirsi vittima situazionale proprio a causa
dell’incomprensione che aleggia spesso nelle famiglie. Nello scorrere del tempo famigliare
in cui un componente non si sente più compreso, accade che si crei il Mito della vittima.
Quest’ultima, è spinta ad esagerare le sensazioni dei propri vissuti proprio a causa
dell’incomprensione che avverte. Si sa che quando un bambino non riceve ascolto
dall’adulto, forza insistentemente le sue richieste di aiuto lamentandosi fino a sfinire
l’adulto il quale, non riuscendo più a sopportare le lamentele, cede alle richieste del
bambino e lui capisce che l’unico modo per ricevere l’attenzione (che gradisce) è proprio
lamentarsi reiteratamente. L’adulto fa la stessa cosa usando una modalità diversa: enfatizza
i suoi disagi o chiudendosi per preoccupare coloro che gli stanno attorno oppure
lamentandosi di continuo fino allo stremo delle forze di sopportazione degli altri .
Il Mito della vittima è di colui che, a causa dell’incomprensione che subisce, esaspera i
famigliari nella speranza di far capire loro la gravità del disagio che vive. E’ una persona
che tende a generalizzare sostenendo che “siccome non mi hai capito, non mi capirai mai”
oppure “tu non l’hai mai avuto quindi non lo puoi capire”. Queste persone restano
incagliate per anni in queste rigidità concettuali ma anche in forme statiche di malessere,
credendo di essere le vittime designate dal destino, si sentono sfiduciate e sole.
Il compito del professionista è quello di stimolare l’altro mito, quello contrario, quello che
bilancerebbe non solo la vittima esistente ma anche l’incompreso.
Stimolare non significa offrire una alternativa e suggerire il modo per attuarla ma
accompagnare durante il percorso di ricerca interiore fino a raggiungere il focus della
saggezza che si trova sotto quelle rigidità condizionanti. Il Mito contrario a quello della vittima è sempre soggettivo e ha il significato, per la persona che lo scopre, di percepire sensazioni di autoammirazione che dovrebbero portare verso l’autocomprensione. L’autoammirazione o autocompiacimento, deve restare verbalmente inespressa per evitare la tracotanza.
L’esordio
La persona che non si sente capita dai famigliari, esordisce spesso con frasi del tipo “sa, io spiego ciò che provo ma nessuno dei miei mi capisce davvero” e il mio intervento parte dagli stessi concetti della frase che la persona esprime. In questo caso, tengo a mente, soprattutto, le espressioni “ciò che provo”, “nessuno mi capisce” e “davvero”. Mi impegno ad accompagnare la persona verso la sua elaborazione filosofica e, partendo dalla prima: per l’espressione “ciò che provo”, inizio con l’accompagnamento chiedendo che cosa prova esattamente?;
per l’espressione “nessuno mi capisce”, c’è, per caso, almeno una persona che la capisce?, mi può dire chi è?;
per il termine “davvero”, cosa intende con l’espressione capire davvero?
Nel percorso di scoperta dei significati personali, emergono sempre dei valori che hannobisogno di essere recuperati; si aprono canali nuovi verso le radici dei significati; la persona, prima tentennante, inizia a meravigliarsi per i passi che sente di fare da sola; si commuove nel sentirsi compresa da se stessa; si individua grazie all’abbandono del ruolo della vittima. Ed è soltanto dopo questa fase di svincolamento o autodistanziamento, che la persona sarà, nel tempo, veramente in grado di amare l’Altro, di trascendersi all’Altro, di donarsi pienamente e liberamente al Tu. L’essere della persona può viversi in una relazione Io-Tu arricchita della sensazione di essere un co-essere “…Secondo Marcel” (filosofo esistenzialista) “l’essere è sempre co-essere, co-essere nell’amore. Per raggiungere il coessere
nell’amore occorre donare la propria esistenza; bisogna smettere di ‘usare’ la
persona dell’altro, di trattarla come un ‘possesso’. L’esistenza dell’uomo non ‘è’ ancora, essa viene creata in comunione personale nell’amore.”(…) “Nel dono ed in quanto dono, noi diventiamo ‘ciò che siamo’, cioè noi iniziamo ad ‘essere’ come dono.” (F.Brancaleone, 1991, p. 40). Da queste poche righe di squisita profondità non possiamo non comprendere l’importanza del passaggio interiore verso l’Altro al fine di protenderci con il dono, verso la realizzazione dell’autocomprensione che solo come tale può collocarsi in una relazione Io-Tu. Se io non mi cum-prehendo, non sono in grado di distanziarmi da me quindi nemmeno di protendermi verso l’Altro perché il fardello dell’iperriflessione è troppo pesante.
Lo sguardo
Gli occhi delle persone che arrivano disperate a chiedere aiuto, mi colpiscono sempre e, nel percorso psicoterapeutico, il loro modo di guardare mi fa capire come sta procedendo laloro crescita. Durante le sedute iniziali, gli sguardi sono sempre preoccupati sia di esprimere le cose che temono di più, sia della mia reazione. E’ come se le persone controllassero con timore un eventuale segnale che decreti la loro demenza.
Man a mano che si procede nel percorso di crescita, gli sguardi si fanno più sicuri, sempre più tranquilli; sembra che si fidino di farsi accogliere dai miei. Alla fine, più delle parole edei comportamenti, sono gli sguardi a testimoniare la conclusione del percorso: è la fierezza tranquilla e riconoscente a trasmettermi che la persona è pronta per vivere la sua vita nell’autocomprensione.
Autocomprendersi non significa iperriflettere ma accogliersi pienamente per lasciarsi andare verso l’Altro e verso le altre cose.
Cosa significa autocomprendersi
Autocomprendersi, in questo contesto, non è inteso in senso frankliano come
autocomprensione ontologica preriflessiva quindi ‘prelogica’ in relazione al pensiero
primitivo indifferenziato.
Autocomprendersi significa sentirsi mentalmente autonomi, non più dipendenti dal bisognodi comprensione garantita dagli altri. Nell’autocomprensione non si avverte la sofferenza dell’anima come quando si è bambini e si ha bisogno di essere accolti in ogni esperienza.
Percepire di bastare a se stessi sia nella gioia come nel dolore è una garanzia di
autosufficienza noetica che mantiene sempre costantemente salda l’autonomia psichica.
È sicuramente importante percepire che l’Altro è in grado di comprenderci, ma rimanere in equilibrio e ben saldi sapendo che ciò può anche non avvenire è una forma di sicurezza ontologica che offre molto di più: rimanere in equilibrio nonostante tutto! penso sia una delle sensazioni più piacevoli che la persona ben individuata possa esperire.
La maieutica
Nella Weltanschauung di chi soffre, esistono modi di percepire la realtà esterna che si
modificano durante il percorso di cambiamento, in particolare, attraverso la ristrutturazione di concetti che mantengono a lungo la persona in uno stato psiconoetico di sospensione.
“La mia vita è finita” mi dice un uomo di trentotto anni sposato e padre e di due bambini; il lavoro non mi dà problemi, non mi manca niente ma mi sento vuoto…non riesco a farmi capire quando spiego cosa sento”.
Quando parla di vuoto, cosa sente esattamente?
“Sento un vuoto strano dentro… che non so spiegare”.
Visto che non lo sa spiegare, pensi solo se lo vorrebbe riempire quel vuoto?
“Si, ma non riesco”.
Come lo riempirebbe il suo vuoto se solo immaginasse di poterlo fare?
“Uhmm…dovrei liberarmi da certe paure”.
Quindi lei, se non ho capito male, ha un pieno più che un vuoto, un pieno di paure!
“Si…mi fa pensare che è proprio così”.
Mi può dire di che paure si tratta?
“Sa…il solo pensiero di pensarci mi fa paura”.
Preferisce concedersi un po’ di tempo? Possiamo affrontare le sue paure più avanti e solo se lo vorrà.
“No no! Voglio liberarmi al più presto…non ne posso proprio più …aspetti un po’…”
Certo, faccia con calma, anch’io, sa, ho bisogno di riflettere su ciò che mi ha appena detto.
(dopo alcuni secondi)
“Penso spesso che la mia vita è povera e mi viene in mente spesso di farla finita”.
La prego, mi spieghi cosa intende dire con questa frase.
È semplice, tutto quello che faccio non ha senso, non ha proprio alcun senso” (abbassa la testa verso le mani aperte e sfoga un pianto disperato. Gli concedo tutto il tempo che gli serve per liberare l’emozione di quel momento e, appena si riprende, mi guarda negli occhi per farmi capire che gradisce continuare).
Se si sente di rispondermi…mi direbbe tutte le cose che fa durante la sua giornata?
“Beh…al mattino preparo la colazione ai miei figli, poi accompagno il più grande a scuola, lavoro fino le diciassette poi, se riesco, faccio alcune spese, rientro e guardo i compiti dei bambini, ceniamo assieme e poi le solite cose serali che di solito fanno i padri”
Quali cose intende?
“Beh…aiutare i bambini a prepararsi per la notte e portarli a letto”.
Quindi, tutte queste cose che fa non hanno alcun senso per lei?
“No beh…le faccio volentieri ma mi resta il mio vuoto”.
Fino ad ora mi ha elencato le cose che fa per i suoi figli…ed è molto bravo come
padre…mi può dire le cose che… non fa…per se stesso e come partner?
(resta stupito, bloccato per alcuni istanti e noto che s’impegna a riflettere sul senso della mia domanda come se pensasse per la prima volta a questo aspetto della vita).
“Sa…non mi capisco…faccio tanto come padre ma lo faccio per non trovarmi nel vuoto della coppia”
Mi può spiegare meglio, per favore?
“Ehhh…ho paura di restare solo con mia moglie perché… non riusciamo a parlarci perché il tempo è troppo poco”.
Quindi lei sente un vuoto di relazione e un pieno di paura?
“Si, è proprio così…non ci avevo mai pensato ma è proprio così”
E cosa penserebbe di fare se immaginasse davanti a sé un vuoto e un pieno?
“Beh! Il vuoto è qualcosa che ha bisogno di essere riempito…eh si perché è un vuoto… e il pieno andrebbe bene così se non fosse un pieno di paure…allora il pieno dovrei vuotarlo…”
Mi sembra una buona idea e quindi?
“Beh vediamo…se volessi bilanciare entrambi dovrei immaginare… di riempire il vuoto che ho, cercando di recuperare il rapporto con mia moglie perché non esiste più…(lungo silenzio)… ehhh…ho proprio sbagliato tutto…e poi dovrei svuotare il contenitore delle paure, uhmmm…ma sa mi rendo conto solo ora che se riempio il vuoto con mia moglie, automaticamente riesco a svuotare cioè a liberarmi dalla paura perché non sentirei più la paura della solitudine…eh sì, penso proprio che bilancerei i miei due problemi…lo sto realizzando solo ora…che strano non ci avevo mai pensato. (permetto alla persona di ripetere tutte le volte che vuole lo stesso concetto, quello cioè, di non aver riflettuto mai prima d’ora: solo in questo modo si liberano dinamiche nuove di consapevolezza quindi di libertà e responsabilità).
Mi sbaglio o la sensazione che lei in questo momento si stia comprendendo, è vera?
“No no non si sbaglia… è vero quello che dice…mi sto proprio capendo, mai come ora mi sono chiarito così bene dei problemi che mi sembravano insormontabili…ma…come ha fatto dottoressa?
Lo svelamento
Sa, sarebbe importante comprendersi più che capirsi perché capire significa seguire con la mente un concetto collegandolo ad altri, mentre comprendersi vuol dire abbracciarsi… assieme a tutti gli aspetti della propria situazione esistenziale, legandoli a sé con le ragioni del cuore non solo con la ragione. Lei era talmente occupato a curare i suoi figli – e questo le fa onore – e a riempire con il lavoro i suoi vuoti, da non soffermarsi a pensare che il cuore ne soffriva: era quello il suo vuoto affettivo che veniva costantemente peggiorato dal pieno d’angoscia.
Io l’ho fatta solo riflettere sul suo vuoto e sul suo pieno…poi ha fatto tutto lei, io sono stata soltanto un accompagnatore e sa… a questo proposito… mi viene in mente il mio caro amico, Pietro Giordano, che nel suo ultimo bellissimo libro dialoga con Socrate e nel capitolo in cui spiega la maieutica parla proprio dell’accompagnatore e fa parlare Socrate il quale dice… “Mettiti nella prospettiva dell’accompagnatore.
Pietro: Ci sono.
Socrate: Da questo punto di vista, la sintesi di rispetto delle regole e di comprensione
amorevole richiama un’altra sintesi: il sapere tecnico e la creatività.
Pietro: Ho capito, Socrate. Che cosa vuoi mostrarmi in questa analogia.
Socrate: Verifichiamo subito la tua intuizione.
Pietro: Secondo te, il rispetto delle regole viene garantito soprattutto dall’accompagnatore quando svolge un ruolo tecnico di salvaguardia del dialogo e della maieutica. Definisce le parole, ascolta, rispetta le opinioni dell’altro, riconduce al tema centrale del dialogo, denuncia le negazioni della verità, le rimozioni della volontà di senso. La comprensione amorevole può esprimersi invece in una intuizione profonda, capace di scoprire il nuovo e il bello nel mondo dell’altro, di ribaltare le prospettive di senso, di muoversi empaticamente dentro i silenzi, il linguaggio non verbale, analogico, di sentire quando gli arrivano le doglie, di intuire se sono vere o false, di scorgere in profondità i progetti sommersi e di farli emergere, dando all’altro la fiducia di poterli attuare, se sono realistici, adeguati alle suecapacità e alle possibilità offerte dall’ambiente.
Socrate: Esattamente.” (P.Giordano, 2001, p.129).
Ecco, vede, è successo proprio questo! Le sue doglie, cioè il suo pianto disperato e il suo senso di vuoto strano, si sono trasformate nella possibilità di partorire le sue idee e di giungere alla riemersione di quei progetti di coppia – di mantenere vivo il dialogo con sua moglie – che lei, senza rendersene conto, aveva sommerso.
Grazie al fatto di aver trovato la soluzione – bilanciando quel suo vuoto e quel suo pieno – e siccome credo che la sua soluzione di costruire un dialogo con sua moglie sia realistica e adeguata alle sue capacità, è avvenuto anche il passaggio all’autocomprensione. Micomplimento con lei!
Quest’uomo si sentiva incompreso e vittima di una situazione di squilibrio emotivoaffettivo che conduceva ineludibilmente ad uno squilibrio psiconoetico. Da quest’ultimo, al pensiero di porre fine alla propria vita, il passo è breve!
Solo accompagnando maieuticamente la persona verso la sua soluzione, è stato possibile portare alla coscienza quello squilibrio e permetterle di recuperare il senso
dell’autocomprensione nella propria interezza tridimensionale. Soffermarsi a percepire le proprie esigenze e valutare tutte le possibilità per appagarne l’urgenza è stato consequenziale.
Il traguardo di non sentire il bisogno della comprensione degli altri non deve essere confuso con l’alterigia tronfia di chi non si fa avvicinare da alcuno e resta in una dimensione asociale di distacco borioso, ma dovrebbe essere inteso alla stregua di un modo di porsi autonomo con la capacità di pensare ed agire liberamente senza subire l’incapacità dell’Altro di comprendere. Tornando all’uomo della storia, nel suo scoprire l’autocomprensione attraverso il recupero del senso della coppia, gli è stato possibile evitare di scivolare nell’abisso del vittimismo cronico.
La frase da me espressa “ha fatto tutto lei” ha tre significati terapeutici: a) permette la presa di coscienza di essere l’unico artefice della soluzione del problema; b) evita che si investa il professionista di significati taumaturgici e c) impedisce la dipendenza psicologica dal professionista stesso. Solo in questo modo la persona, che prima soffriva, riesce a rinforzare la propria individuazione e a percepire l’autocomprensione.
Bibliografia
Abbagnano N., (2006), “Storia della filosofia” Gruppo Editoriale l’Espresso.
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