I sintomi della depressione

DEPRESSIONE e DISTURBI DEPRESSIVI La persona che soffre di disturbi depressivi si sente costantemente triste, svuotata, scoraggiata, demotivata e priva di un senso per cui vivere. Si chiude in se stessa e non prova più interesse o piacere nel praticare le attività che in passato considerava piacevoli. Soffre di disturbi del sonno, dell’addormentamento, dell’alimentazione e piange spesso. Si sente rallentata o irrequieta, stanca, apatica e senza forze. Si sente impotente, disperata e inutile. Ha difficoltà a pensare con lucidità o a prendere decisioni. Ha problemi di memoria e di concentrazione. Pensa spesso alla morte o al suicidio. Ha una cattiva opinione di sé, si abbatte, si sente inadeguata. Rimugina spesso sul passato e sul senso di colpa. Non mostra interesse per il sesso oppure ha un’attività sessuale intensa rispetto al solito. Sviluppa sintomi fisici quali cefalea, problemi digestivi, dolori diffusi e molti sintomi di rallentamento. Questi sintomi possono essere presenti in numero ed intensità variabile, caratterizzando il disturbo come depressione maggiore, distimia o depressione minore. La cura della depressione si avvale dell’efficacia della Logoterapia e dell’ Analisi Esistenziale

Ipnosi ericksoniana

L’ipnosi è uno stato alternativo di coscienza che permette al soggetto di “entrare” in un livello più o meno profondo del suo inconscio psichico o spirituale-noetico.

L’inconscio psichico inerisce tutto il substrato esperienziale del soggetto legato alle emozioni, agli affetti, alle sensazioni, ai ricordi, ai desideri, ai timori, e a tutti i vissuti che riguardano il soggetto stesso.
L’inconscio spirituale o noetico riguarda tutto il mondo valoriale e dell’essenza del soggetto.
Tutto ciò è ben custodito nell’emisfero destro del cervello in forma di simboli intraducibili dal soggetto.
L’ipnosi stimola l’emisfero destro del cervello pur mantenendo vigile l’emisfero sinistro. Infatti durante l’ipnosi il soggetto è in grado di sentire i messaggi esterni.
Oltre a ciò, durante l’ipnosi, il soggetto non obbedisce a comandi che possano andare contro i suoi principi morali; questo perché l’emisfero sinistro, che è logico e razionale, controlla sempre le azioni del soggetto.
Durante l’ipnosi ericksoniana, si attivano nell’emisfero destro uno o più simboli del passato che, grazie all’aiuto del terapeuta, vengono modificati dal soggetto affinché egli percepisca all’interno di sé, una sensazione di alleggerimento psichico e di benessere.
L’ipnosi ericksoniana non forza mai la struttura psicologica né il mondo simbolico-fantasmatico della persona ma, favorisce nel soggetto la consapevolezza di poter modificare da sé e sempre a suo vantaggio, tutto ciò che disturba l’equilibrio psichico, fisico e spirituale.
Nel caso di disturbi psicosomatici, il sintomo del soggetto non va inteso come rapporto di causa ed effetto cioè come l’espressione nel versante corporeo di un disagio prodotto nella psiche, ma come l’aspetto fisico dell’espressione globale, sincronicamente psichica e fisica, di un unico malessere.
Il sintomo-simbolo unifica non solo la parte-organo all’insieme-corpo, ma il corpo alla psiche e la parte conscia alla profondità inconscia, nell’unità globale del tutto.
L’ipnosi ericksoniana attiva metalivelli nel soggetto ipnotico per facilitare a se stesso il contatto al simbolo fisico o psichico grazie all’uso, da parte del terapeuta, delle metafore.

L’educazione alla LIBERTA’ nella dinamica di coppia

Per porre il problema educativo della libertà nella coppia, bisogna prima capire che cos’è la libertà individuale e poi come si può educare ad essere veramente liberi. Infatti prima di dare inizio alla vita di coppia, è fondamentale che si “formi” il singolo. Quest’ultimo dovrebbe esperire personalmente il senso della libertà per essere in grado di vivere un rapporto a due sereno ed equilibrato. Quando due persone si costituiscono in coppia, si uniscono due forme di libertà che devono imparare a convivere rispettandosi a vicenda. Impostiamo il problema. Poniamo una delle domande fondamentali: che cos’è la Libertà per l’uomo? Quando un uomo si sente libero? Un uomo si sente libero quando non è condizionato nelle sue possibilità di scelta. Infatti la libertà è una condizione, tipicamente umana, che ci pone continuamente davanti a delle scelte che ci definiscono come persone e ci differenziano. In questo senso la libertà convive con la possibilità: più possibilità di scelta ho, più mi sento libero. Quindi devo educarmi ad ampliare le mie alternative di scelta, a saperle riconoscere. La Libertà è anche un valore che implica l’autonomia e la responsabilità. Rappresenta una necessità della coscienza, una direzione ideale (doverosità), che tenga conto della coerenza interna (doverosità verso se stessi) e del rispetto dei bisogni degli altri (doverosità verso gli altri). Quindi l’educazione alla scelta diventa una educazione all’autonomia e alla responsabilità, imparando, di volta in volta, a scoprire nelle situazioni concrete dell’esistenza le giuste priorità interiori ed esterne. E’ un allenamento quotidiano che si realizza nel prendere posizione e nell’agire. In questo senso educare alla libertà significa educare all’azione. Il senso di responsabilità cammina di pari passo col senso di libertà. La persona impara a voler fare qualcosa che deve fare per raggiungere il suo obiettivo e per acquisire ciò deve tener sempre presente l’obiettivo da raggiungere e

considerare che il suo percorso è irto di ostacoli che vuole superare: quasi a sfidarne la prepotenza. Nella coppia, il singolo che ha dato vita a questa consapevolezza dentro di sé può essere in grado di aiutare l’altro nella ricerca del senso di libertà non ancora scoperto. Partendo dal presupposto che non esiste libertà senza l’interiorizzazione delle norme, per scoprire ed alimentare il proprio e l’altrui senso di libertà, è bene prescindere sempre da quelle norme e da quei vincoli esterni che hanno generato reazioni oppositive durante l’età infantile ed adolescenziale. Quelle reazioni antagoniste nei confronti dei genitori e delle loro regole, devono trovare la loro giusta modalità espressiva. La persona adulta deve chiedersi se ha interiorizzato quelle regole perché c’era il desiderio di “diventare” quelle norme, quei valori, quei principi o se l’ha fatto solo per spirito di emulazione. “Accorgersi” di un valore o una norma nell’Altro ed imparare a “farlo proprio” determina una libera scelta che condizionerà il comportamento futuro che verrà poi vissuto nel rapporto Io-Tu. Educarsi ed educare al senso della libertà è un processo continuo che forma la mente dell’uomo. In questa dinamica, la persona prende coscienza dei propri limiti e inizia prima a “liberarsi da” preconcetti che limitano le sue scelte e, piano piano, percepisce la propria “libertà per” quella cosa vissuta come “scelta libera”. Il senso autentico di libertà si vive nella consapevolezza di scegliere ed eseguire un’attività o coltivare una situazione che produca una risposta piacevole per il singolo che sceglie. Anche la coppia che vive autenticamente in libertà non fa ciò che vuole ma vuole fare ciò che ha deciso di fare di comune accordo. Una coppia così assortita può e deve imparare ad educarsi reciprocamente al senso di libertà creando un dialogo continuo in quanto la libertà del singolo si modifica in base alle esigenze interne (del singolo stesso) ed esterne (dell’altro). Nella coppia queste esigenze si moltiplicano; è importante, dunque, imparare ad ascoltare e a parlare all’altro cercando di trovare sempre una soluzione ad ogni crisi. La soluzione non deve mai essere proposta né imposta ma dev’essere scoperta dal singolo stesso che vive la crisi. L’Altro lo aiuterà soltanto ad attivare in sé le proprie potenzialità di superamento della crisi. In questa ricerca reciproca di soluzioni i due singoli interiorizzano il senso di responsabilità che si traduce, nel tempo, in libertà di coppia. Nel dialogo Io-Tu devono venir rispettate le priorità di scelta dei singoli senza mai

sottovalutare i VALORI reciproci. Solo così si scopre la possibilità di raggiungere quell’equilibrio sereno che sproni i due partners al raggiungimento dei propri obiettivi sia individuali che di coppia. Bibliografia Fizzotti, E. e Carelli, R. Logoterapia applicata, Edizioni Salcom, 1990. Frankl, V.E., Dio nell’inconscio, Edizioni Morcelliana, 1990. Frankl, V.E., La sofferenza di una vita senza senso, Edizioni Elle Di Ci, 1992. Frankl, V.E., Senso e valori per l’esistenza, Edizioni Città Nuova, 1994. Giordano, P., Logoanalisi Edizioni Città Nuova, 1992. Lukas, E., Dare un senso alla famiglia, Edizioni Paoline, 1990. Lukas, E., Prevenire le crisi, Edizioni Cittadella, 1991. Lukas, E., Dare un senso alla vita, Edizioni Cittadella, 1983 Peluso, A., Innamoramento e vita relazionale della coppia, Edizioni Città nuova, 1990.

L’eterno femminino tra la vita e la morte

La donna come persona che è in grado di procreare ha, implicite in sé, la vita e la morte: la vita come speranza di generare un figlio che può tradursi in realtà e la morte come timore di perderlo in grembo o dopo la nascita. Essendo la donna in grado di dare vita espressiva alla sua potenzialità materna riesce, nella maggior parte dei casi, ad elaborare anche il peggior vissuto: quello della morte della persona amata. La storia di Anna, laureata in medicina, ci offre un ulteriore possibilità per comprendere che l’essere umano può uscire dal trauma peggiore, la morte, vivendolo come un’occasione di crescita personale. Anna si impegna a mantenersi in vita perché così avrebbe voluto il suo amato e decide di interagire con se stessa per notare le domande che la vita le pone e per rivolgere maggior attenzione alle risposte interiori; capisce che deve accettare, non può far altro e, in nome della fede nel grande mistero della vita, si acquieta e non accetta supinamente ma trova un senso nonostante tutto ciò che le accade. Anna vive quest’esperienza come una prestazione esistenziale; sicuramente la più forte e dolorosa della sua vita, ma la vuole vivere. Con il sostegno della Logoterapia e dell’Analisi Esistenziale, mette sempre più a fuoco la profondità del senso del dolore che sta vivendo e si appella ai suoi valori di atteggiamento. Il lutto all’interno della sua famiglia viene vissuto, nelle varie unicità di ogni singola persona, in modi e tempi molto diversi, creando dei profondi mutamenti personali e relazionali. Le reazioni iniziali La fase iniziale del lutto può, in alcuni casi, disgregare i legami familiari che prima si erano consolidati da tempo ma, nel periodo successivo al lutto, può trasformarsi in opportunità di cambiamento, di vera crescita. Ogni morte sentita come strappo violento è seguita da processi individuali che è impossibile definire in quanto unici. Ogni assestamento emotivo che coinvolga anche gli affetti, crea inevitabilmente degli sforzi nelle varie sofferenze individuali, ed è doveroso attendere i riequilibri psiconoetici di ognuno. Le diverse reazioni al lutto all’interno della famiglia sono la negazione, la fuga, la proiezione, la collera o il congelamento delle emozioni, a volte la distrazione sfrenata o la rassegnazione passiva. Anche la quiescenza noetica è una risposta che chiude la persona nei confronti della vita. L’eterno femminino implicito in Anna si manifesta alla sua coscienza quando lei si rende conto che ciò che ha patito durante l’“attesa del parto”, le si ripropone anche nel momento più penoso dell’esistenza: quello dell’“attesa della morte” e, in seguito, dell’attesa che ognuno si disincagli dal labirinto del dolore. Dal nonsenso del morire al senso della morte Credo che nessuna morte abbia un senso, almeno agli occhi della limitata comprensione umana. Razionalmente il significato che possiamo attribuire al morire è soltanto quello del procedere verso qualcosa d’altro come quando, nel nostro vivere

quotidiano, sentiamo l’attimo di qualcosa che ci lasciamo alle spalle e l’attimo di qualcosa d’altro che stiamo per intraprendere. Quel passaggio vincolato alla caducità del tempo, che viviamo in tutte le cose che facciamo, fa parte del processo evolutivo ineliminabile di ogni essere umano. «Ma la morte che senso ha?» mi chiede Anna. La morte è implicita nella vita, intesa come dualità intrinseca, inconfutabile ed eterna. Perchési deve morire inerisce una delle tante grandi domande sull’esistenza umana e riguarda, in termini antropologici, il momento più o meno lungo, più o meno travagliato del lasciare la vita terrena. Per Freud il lutto è sempre e solo un moto intrapsichico; per Frankl non può essere solo così: è importante che lo Spirito, il Nous trascenda verso la richiesta chiara ma misteriosa di Dio. Ed è proprio il mistero il vero dono che alleggerisce l’animo. Anna perde in pochi mesi la persona che aveva scelto di amare e con la quale visse quasi quarant’anni: anni intensi e scanditi da gioie ma anche da esperienze di forti dolori, di prevedibili ma rassicuranti quotidianità , soprattutto di forti emozioni affettive. Subito dopo la perdita del suo uomo, così importante, sembra che nessuna cosa scalfisca il suo dolore poi, durante un pianto angosciato, ricorda la sua voce che le diceva negli ultimi anni di vita, (quando ancora lui godeva di buona salute): «se mancassi tu io non ce la farei…tu invece sì…se mancassi io per primo ce la faresti perché sei forte e riusciresti a cavartela anche senza di me». Questa frase ricordata proprio durante quel pianto, iniziò a smuovere in Anna delle risorse sopite, sepolte dallo strazio della morte. Risorse che Anna sa di possedere e di poter sfruttare ma il tempo in cui si trova è un tempo lento, vuoto, un tempo in cui, pur soffrendo, sa di dover vivere e così, consapevolmente, sceglie di calarsi nel suo dolore perché anche questo deve avere un senso! Lì per lì, non è possibile scoprirlo, è troppo presto… Rimanere nel dolore significa soffrire ma vuol dire anche “lasciare all’aria la ferita” affinché si rimargini…e man a mano che i giorni e i mesi passano, Anna si impegna a mantenersi in vita perché così avrebbe voluto il suo amato. Sceglie di interagire con se stessa per rispondere alla domanda “ perché così presto?” Tutti i suoi drammi precedenti sono stati superati grazie ai suoi valori e, ancora una volta decide, nonostante tutto, di riprovare a vivere. Solo dando un senso a questa grave perdita, Anna passa dalla fase del cordoglio (cuore cheduole) alla fase del lutto. Andando a rivedere l’agenda personale del giorno coincidente alla morte di suo marito, nota di aver scritto la frase “caro adorato…ripartiamo da qui per parlarci con lo spirito” e guardando più volte questa frase si rende conto solo ora di averla scritta senza una chiara consapevolezza…scritta di getto ma pregna d’importanza. Da qui si crea una nuova comunicazione spirituale con se stessa e con lui. Nel lutto, come dicevo, l’essere umano può vivere varie fasi caratterizzate all’inizio dalla negazione: si nega, si rifiuta ciò che si teme possa accadere. E’ importante uscire quanto prima dalla fase della negazione, possibilmente già nel periodo terminale che la persona morente sta attraversando. La morte buona L’uscita dalla dinamica della negazione permette alla persona che sta morendo di ricevere l’aiuto più importante che un essere umano possa desiderare dalla famiglia: andare verso la morte mano nella mano, sentendosi accompagnata amorevolmente; ma permette anche alla persona disperata di essere presente a se stessa per attraversare la morte insieme ed accompagnare il proprio amato…alla vita ultraterrena. Attraversare significa entrare in modo consono nel bisogno del morente (con la parola, il silenzio, il gesto), di vivere in modo dignitoso la fine della vita; accompagnare è solo un

attimo pregno di mistero che non è giusto descrivere perché nessuna parola, per quanto ricercata sia, potrà mai espletarne il vero senso. Se la vita di coppia è stata ricca di senso…la morte ha il suo senso ricco proprio nel momento storico in cui Dio ha deciso per essa. Anna, dopo lo choc della notizia, nega ma soltanto per poco tempo. Come ha sempre fatto nei momenti di grave difficoltà che la vita le ha imposto, cerca di recuperare dentro di sé tutte le energie per rendere buona la morte del suo adorato compagno di vita. Facendo appello ai propri valori di atteggiamento cioè alla sua tenacia, al coraggio, alla calma, alla volontà di non rendere penosa e spaventosa l’ultima notte del suo compagno, si prepara ad accompagnarlo. “I valori di atteggiamento […] sono situati in una dimensione più alta, rispetto a quelli creativi e di esperienza: parlando di senso della sofferenza, non si tratta infatti di una possibilità qualsiasi, ma della possibilità di realizzare il più alto valore, dell’occasione di attuare il significato più profondo: «l’accettazione, almeno nel senso che essa ci fa sopportare nel modo giusto e leale un destino autentico, è essa stessa un’azione; meglio ancora, essa è non solamente ‘una’ prestazione, ma ‘la più alta’ prestazione che all’uomo sia dato di realizzare».” (Bruzzone, 2001, p.329). Anche in queste ultime ore della vita terrena del suo amato, Anna percepisce che la propria anima, come dimensione femminile più profonda, le offre esattamente ciò di cui ha bisogno: l’attesa del tempo del morire che il suo compagno di vita e lei stessa stanno esperendo. Ricorda che, come ha saputo controllare il respiro e il tempo per far nascere i suoi figli, ora li mette a disposizione del suo amato ch’è tutto proteso nel coma pre-morte ad accogliere ogni sua parola. Lui non parla più ma Anna sente che sta attendendo qualcosa da lei e così… gli rievoca i passi più importanti della loro lunga vita insieme! Sente che per lui è importante collegare tutto il passato pieno di senso con il presente che è un abbraccio avvolgente e rassicurante per entrare insieme in una dimensione che Anna può solo immaginare ma lui sta già esperendo. Ogni punto della stanza si fa silente per favorire l’eco di quelle parole sussurrate ma rimbombanti; ogni ombra della notte sembra sostare, sospendere i suoi contorni per lasciar indisturbato quel fluire di parole…le infermiere discrete si affacciano all’uscio ma indietreggiano in punta di piedi per non infrangere la sacralità di quei momenti. Tutto tace ma ogni scambio invisibile di ciò che si crea tra lei e lui riempie di senso la stanza, l’ospedale, l’universo. Dopo alcune ore…la vita fisica dell’amato si spegne con un gemito flebile fra le braccia della donna che ha amato più di se stesso. Silenzio… Nell’istante del distacco dell’anima dal corpo, Anna avverte l’ascesa dell’essenza del suo amato dal corpo sofferente e…rimane in silenzio. Nessuno lo sa ancora, solo lei. Dopo pochi minuti, le viene dato l’anello nuziale ancora tiepido che indossa subito per dargli continuità col proprio calore e avverte che l’anima dell’amato l’accompagna fuori dalla stanza, fuori dall’ospedale e rimane con lei. Per confermare a se stessa questa sensazione, mentre torna a casa, ricorda di aver letto che mentre il corpo “cessa di esistere per dissoluzione o per disgregazione di parti perché è composto, l’anima umana, essendo spirituale, non può cessare di esistere in nessun modo […] quindi non può morire […] si disgrega e scompone soltanto ciò che è composto, vale a dire ciò che ha parti, le quali possono venire separate […] ma l’anima spirituale non ha parti, è semplicissima, perché le sue manifestazioni più elevate, come le idee astratte, sono semplicissime; le idee sono inestese, si sottraggono a tutte le condizioni della materia […] quindi non è possibile scomporla; pertanto, semplicissima (in nessun modo composta) e avente un’esistenza propria, l’anima umana non può essere distrutta da nessuna forza naturale” (Marcozzi, 1992,

p. 201-2). Ricordando questa lettura ed avendo dentro di sé la sensazione di camminare con lui-spirito, va verso casa. Cordoglio e lutto in chi sopravvive alla persona amata. La persona che sopravvive ad una perdita importante può reagire frenando le proprie emozioni o proiettandole all’esterno. Anna non le frena e non le proietta, se le vuole vivere, ma si rende conto che in famiglia qualcuno lo fa. Oltre al dolore per la perdita, Anna s’imbatte nella sofferenza di non poter far alcunché per i suoi cari che si bloccano. Anna viene aiutata a capire che se si frenano le emozioni si può rischiare di congelarle. «Può» mi chiede pensando ai suoi cari «qualcosa di congelato tornare alla vita?» Certamente si, però ci vuole una fonte di calore per sciogliere quel congelamento. La fonte di calore la si può trovare soltanto dentro di sè, magari con l’aiuto paziente di una persona capace di rinfocolarla. E’ importante che la persona che perde il contatto con le proprie emozioni, fino a congelarle, si renda conto di ciò altrimenti rischia il distacco da sé! Anna riesce ad evitare questo processo destrutturante grazie alla sua tenacia e alla sua vera fede nella vita, nella sua professione di medico, in ultima analisi, in Dio! Si, perché per lei la sua professione è un mezzo per terminare la sua esistenza già ricca di senso. Accorgersi di sè Una domanda che le si affaccia alla mente dopo poco tempo dalla morte e alla quale presta subito attenzione è: cosa avrebbe voluto lui per il mio bene? cosa mi avrebbe detto di curare con attenzione affinché io non mi facessi mancare le cose importanti? Anna inizia a prestare attenzione alle risposte relative a ciò che la vita le chiede ora; risposte che le si palesano immediatamente nell’atto di rendere contento il suo amato come se fosse vivo, evitando di trascurarsi e facendo ogni cosa meglio di prima per essere in sintonia con i suoi desideri. Giorno dopo giorno si dedica alla cura di se stessa e si accorge che questo comportamento le offre qualcosa: una risonanza emotiva molto simile a quella che provava quando lui gioiva con lei. Si crea così una comunicazione attraverso tutte le cose che vive durante la giornata. “Come per l’irreversibile fugacità del tempo, così per la perentorietà della morte, Frankl ritiene che il segreto della soluzione non stia nel ricercarne una motivazione razionale, bensì nell’accoglierne l’appello in termini di responsabilizzazione personale” (Bruzzone, 2001, p. 328). Anna inizia a sentirsi responsabile nei confronti di quanto al suo amato premeva per lei, per il suo benessere. Si scuote e si accorge di sé: amando se stessa ama lui; rimane in contatto col suo desiderio d’amore, quindi con lui. La fine del cordoglio Accorgendosi di sé e iniziando a curare la propria persona, Anna pensa “ora basta piangere”! Inizia il tempo del ringraziamento per il dono ricevuto: aver conosciuto e vissuto accanto alla persona amata che solo fisicamente non c’è più. Pensare al modo in cui è cresciuto, negli anni, il loro amore, nonostante i periodi di distacco dovuti alle necessità professionali, fa riflettere Anna anche sul loro essere stati insieme nell’amore, al loro modus amoris. “Tale modus amoris è estraneo ad ogni sorta di imposizione, di comando, di commercio. In esso la lontananza dei due amantes non provoca un indebolimento, anzi un rinvigorimento del modus, come pure non ha alcun senso parlare di impenetrabilità nell’amore […]. Infatti, l’asserzione amorosa: “Dove ci sei tu ci sono anch’io”, esprime in modo unico e singolare

l’attuarsi totale della dualità dell’Io e del Tu. Inoltre, solamente nell’amore l’Io può liberarsi da ogni legame costrittivo, appunto perché non è possibile essere pienamente se stessi se non si è con un altro, se non ci si costruisce in un “noi”[…]. E poiché nell’amore l’Io non dà qualcosa ad un altro, ma propriamente si dona, […] esso trascende l’individualità e va al di là della paura e della felicità, del dolore e della speranza. E quindi, costituendosi nella dualità dell’amore, i due amantes sanno di superare gli aspetti caduchi e transitori delle realtà terrene e di eternizzare se stessi. L’amore perciò è totalmente indipendente dalla temporalità, dalla cronologia, dalle specificazioni limitate e limitanti dello spazio e del tempo, per cui resta immutato ed immutabile anche nella separazione, nella lontananza, nella morte di uno dei due amantes.” (Fizzotti,1980, p.115-116). Avendo avuto Anna, fin da bambina, la sensazione di vivere in Dio e per Dio, ora vive il suo amato come un’opportunità che il sovrasenso le offre “dove ci sei tu ci sono anch’io”. Anna non si deresponsabilizza! Sa che questo sovrasenso è la sua parte spirituale che non frena assolutamente le sue dimensioni psichica e fisica ma, anzi, le completa mantenendo in lei la tridimensionalità che ha sempre percepito importante. Cosa significa amare Amare significa volere il bene dell’altra persona, non trascurando se stessi o rinunciando ai propri bisogni, ma protendendosi verso di lei in un atto di volontà affettuoso. Nell’atto di amare esiste un Io che si decide per un Tu e che, nel contempo, si prende cura della propria volontà di significato e un Tu che fa altrettanto; tutto questo in uno spazio sacro di coppia in cui nessun altro deve poter entrare; come a dire: faccio ciò che al Tu piacerebbe che io facessi per me come possibilità e desideri ancora irrealizzati e sento che il Tu fa altrettanto per sè; non per la reciproca autorealizzazione egoistica e autocentrata ma per dare un senso pieno a ciò che conta per ciascuno all’interno della coppia. “L’amore scorge e dischiude nel Tu amato possibilità di valori. Anch’esso dunque anticipa qualcosa nella sua visione spirituale; anticipa ciò che una persona concreta, ossia la persona amata, può celare in sé quanto a possibilità personali ancora irrealizzate.” (Frankl, 2001, p. 78). Il rispetto dell’occupare uno spazio all’interno di una coppia e accanto ad una persona sviluppa, nel corso del tempo, la capacità e il piacere di condividere spazi comuni di vita assieme. In questo modo nessuno si lamenta di non poter godere della propria volontà di significato. Ci si rende conto che si realizza l’autotrascendenza proprio quando l’Io, nel realizzare ciò che fa piacere al Tu che si realizzi per l’Io stesso, si crea la gioia e la possibilità di realizzarsi specularmene per il Tu. Non esiste il benché minimo interesse egoistico ma sempre e comunque altruistico e in una circolarità virtuosa. Se questo non avviene, i due mondi psiconoetici camminano su due binari separati e lontani: non esiste un logos in coppia in cui condividere l’essenza della coppia. Le conseguenze sono il distacco fisico, psicologico e spirituale che allontana sempre più le due persone anche se continuano a vivere sotto lo stesso tetto. Mentre il Logos di coppia è qualcosa che annulla le due originalità, che deresponsabilizza le due persone (perché i reciproci confini dell’Io si sovrappongono), il Logos in coppia rispetta le due unicità e le rende responsabili e libere; è uno spazio comune in cui le due singolarità si sentono libere di rispettare sentendosi rispettate. E’ importante che nella coppia si eviti l’autorealizzazione fine a se stessa ma sempre all’interno di un progetto in cui le due persone possano vivere le rispettive esistenze libere di identificarsi nei valori e negli scopi personali. Ci vuole un atteggiamento amorevole che non trascuri mai né i propri bisogni noetici né quelli dell’altra persona e per far ciò è fondamentale che la coscienza di entrambi, come organo di significato, si protenda in uno sforzo continuo, non tanto psicologico (quindi carico di ansia) quanto spirituale cioè “aperto ai valori”.

Anna si è chiesta spesso, durante la sua esistenza, “ma io permetto al mio caro di realizzare ciò che desidera davvero per sé?” E nella misura in cui la sua risposta era affermativa (cioè il suo femminino si esplicava in modo oblativo), riceveva due risposte: la conferma che lui riusciva a raggiungere i suoi obiettivi e la chiara sensazione di poter realizzare, a sua volta, i propri, grazie all’atteggiamento di apertura ai valori di entrambi. In questa dinamica si capisce cos’è la “coscienza come organo di significato che si sforza per amore dell’altro”. E in questo intrinseco moto spirituale avviene ciò che Karl Jaspers scrisse: “Ciò che l’uomo è, lo è attraverso la cosa che fa sua”. Ma questo assunto va completato con: “sempre rispettando ciò che il Tu decide per sé nello spazio di coppia”. La cosa che facciamo nostra è sempre sostenuta e nutrita dai valori personali dell’Io e del Tu che danno alla cosa stessa una pregnanza di senso insostituibile. L’inizio della vita spirituale grazie alla Logoterapia Dopo la fine della vita fisica del proprio caro e l’inizio dell’elaborazione del lutto, Anna si impegna a riordinare tutto ciò che le è successo anche se, per la fede che la contraddistingue, sa che non le è possibile capire tutto il mistero della morte. Avverte dentro di sé il piacere di paragonare l’amore incondizionato per suo marito con l’amore incondizionato per Dio. Le vengono in mente le parole di Frankl quando dice “a mio parere, la fede in Dio o è incondizionata o non è fede […] non possiamo contrattare con Dio” (Frankl, 1990, p. 142). Amare Dio incondizionatamente significa accettare ciò che Lui sceglie per noi, anche la morte. Il senso terreno che noi diamo a questo evento è vincolato al nostro ragionare umano. L’Altro, quello di Dio, trascende il nostro modo di ragionare quindi non ci è dato di capire. L’uomo, quando si mette in ascolto, può capire il senso, mai il sovrasenso! La perdita è costituita dal dolore per la persona che non c’è più fisicamente e dal timore di riprendere a vivere senza quella persona cara. La domanda sul senso si riaffaccia spesso alla coscienza di Anna: «che senso ha ora la mia vita senza la sua? Come potrò rivisitare i luoghi, incontrare le persone, affrontare le situazioni senza di lui? Cosa mi succederà?» Il senso di vuoto nell’attesa delle risposte è deprimente, ma proprio facendo appello a ciò che Dio ha deciso, è possibile procedere e Anna scrive nel diario che mi legge: «è Lui a chieder-mi questo, è Lui, amore mio, a chieder-ci questo». “[…] un significato può essere realizzato anche nel dolore […] Vuol forse dire questo che è necessario il dolore per trovare un significato? Sarebbe un enorme fraintendimento. Non penso affatto che il dolore sia necessario, ma solo che il significato è possibile nonostante il dolore, per non dire, anche attraverso il dolore – presupposto che si tratti di un dolore inevitabile, le cui cause non possono cioè essere eliminate o rimosse.” (Frankl, 1990, p.129). Soffrire per amore di… L’essere umano non è mai pronto a soffrire ma dovrebbe far fronte alla sofferenza impegnandosi a considerarne la possibilità. L’uomo deve poter maturare un atteggiamento intenzionale in cui non vi è la ricerca della sofferenza fine a se stessa ma il riconoscerla vivendola senza l’autocommiserazione. “Il dolore va inteso, ma sempre e solo per essere trasceso […] il dolore è disumanizzante soltanto se è subìto, mentre se viene accettato in vista di un fine, volgendolo in dono per qualcuno e per qualcosa, consente di realizzare la propria dimensione oblativa, in totale gratuità” (Fizzotti,1993, p.45). Scegliere intenzionalmente di accogliere ciò che il destino ci impone e di trasformarlo in dono, è un

atto, un passaggio che trascende noi stessi fino al limite del mistero. Relativamente alla domanda che l’uomo si pone di fronte alla morte del perché Dio abbia creato la sofferenza, “l’unico atteggiamento adeguato all’uomo di fronte alla problematica di una patodicea, o addirittura della teodicea, è quello di Giobbe, che si inchinò davanti al mistero” (Frankl, 2001, p. 136). Se una persona non riesce ad inchinarsi davanti al mistero, è come se perdesse tutto della sua vita passata; è come se percepisse alle sue spalle un baratro, un vuoto incolmabile. Aver vissuto senza aver lasciato tracce è una sensazione terribile che può indurre l’uomo alla depressione, al vuoto, al suicidio. Non è mai così, per nessuno! “permettetemi di sottolineare che qualsiasi cosa abbiamo messo in salvo nel passato rimane là, indipendentemente dal fatto che la guardiamo, e continua a esistere persino a prescindere dalla nostra stessa esistenza.” (Frankl, 2005, p. 157). Dare dignità ad ogni esperienza fatta singolarmente e in-relazione, nobilita ciò che siamo stati anche se dal presente in cui viviamo, correggeremmo quasi tutto. Soffrire per amore di qualcuno pensando che la propria sofferenza ha evitato alla persona cara la stessa pena, fa pensare alla gioia di patirla; ha un senso profondo e, per amore della persona tanto amata, non la si vuole più evitare. Ed è proprio questa sofferenza subìta ma preferita, a dare eternità al rapporto d’amore che si è solo sospeso in attesa diritrovare lo stesso equilibrio dimensionale: spirito-spirito. La Spiritualità sapienziale Pensando alla storia di Anna e a tutte le storie di coppia consolidate in cui sono accaduti fatti significativi, la mente mi ha portato alla sapienza del Qohelet che risuona spesso in me; in particolar modo il versetto «Getta il tuo pane sulle acque correnti: ché, dopo lunghi dì, lo ritroverai!» (Qo 11:1) come a dire:Metti il tuo impegno amorevole nel rapporto con l’altra persona: nel corso del tempo, nei momenti aridi fino a quelli strazianti, risalterà ai tuoi e ai Suoi occhi.Le “acque correnti”sono da intendere come il fluire del tempo sponsale, in cui due persone si trovano a condividere ma anche a sopportare tutte le cose dell’esistenza. Affidare il pane al flusso della corrente, con la speranza che lo restituisca, significa “lasciare segni tramite comportamenti rispettosi” nel fluire del tempo, sapendo che solo in questo modo, «dopo lunghi dì, lo ritroverai». Quando «il tempo di ridere» lascerà spazio al «tempo di piangere» (Qo 3:4) quel pane, senza più l’acqua, risalterà con tutto il suo significato. «Chi bada al vento, non semina, e chi osserva le nuvole non mieterà mai»(Qo 11:4): soffermarsi solo al contenuto dei diverbi significa non seminare “altro”; chi insiste nel sottolineare l’errore dell’altra persona, non mieterà mai! Ecclesiaste* associa l’acqua al ritorno (Qo 7:1); esiste un’abitudine tra gli ebrei sefarditi: quando qualcuno parte per un viaggio, la madre versa dell’acqua sulla soglia di casa e fa camminare sopra quell’acqua come buon auspicio di ritorno garantito. Lo stesso concetto emerge da un vecchio proverbio egizio: “fai una buona azione e gettala sull’acqua; quando si seccherà la ritroverai”. L’intento di Ecclesiaste è duplice: da un lato vuole incoraggiare il rischio: l’acqua significa avventura; non sappiamo dove andrà il pane. Ma significa anche pericolo di scomparsa. Nel pensiero biblico, l’acqua è associata al nulla e al caos (Gn 1:2, Ez 26:19-21). Quando Michea dice che Dio “getterà in fondo al mare tutti i nostri peccati” (Mic 7:19), intende affermare che il Signore perdonerà le nostre colpe. Dall’altro lato, si configura come una promessa secondo cui le buone azioni non andranno perse perché l’acqua ce le restituirà. L’espressione “sulle acque correnti” è associata, nella tradizione biblica, all’evento della

creazione (Gn 1:2) e nell’usarla l’autore vuole indicare che Dio, il creatore, ha il controllo. L’ingiunzione “getta il tuo pane sulle acque correnti” è dunque qualcosa di più di un invito alla carità: è un appello alla fede. Vedremo il nostro pane restituito se accetteremo di correre il rischio di perderlo. La fede implica questo rischio! (B.J.Doukhan, p. 152). Ma anche la fede nella coppia implica questo rischio! Dare il nostro pane al povero (non otterremo nulla in cambio perché lui è indigente): fare questo gesto implica “fare per donare” e non “fare per ricevere”; non sarà un do ut des ma un dono gratuito al fine di aiutare una persona bisognosa. In coppia, dovrebbe valere la stessa cosa: fare sapendo di fare il piacere dell’altra persona; indipendentemente dal fatto di ricevere qualcosa in cambio. Nella coppia possiamo calare queste parole tenendo conto dell’importanza del rischio nella fede della relazione! Chi garantisce ad una persona che la vita della coppia sarà eterna? Nessuno! Si tratta quindi di fidarsi di gettare il proprio pane nelle acque esistenziali; si rischia perché la fallibilità del genere umano non offre alcunché di certo. Mi permetto di fare un parallelo tra Dio e il partner della nostra coppia: se serviamo Dio per guadagnarci il Suo regno, non stiamo servendo Lui ma noi stessi; ci si aspetta sempre qualcosa dai doni offerti a Dio correndo il rischio di perdere la fede non ricevendo ciò che abbiamo chiesto nell’atto del nostro donare. Qohelet ci esorta a dare disinteressatamente senza mai attenderci alcunché in cambio. In coppia esiste però un aspetto meno elevato rispetto a ciò che dovrebbe rappresentare la vera fede in Dio: si fa per l’altra persona perchè sappiamo di farle piacere, di gratificarla, di renderla felice, perché la si ama anche così. Con Dio non vale questo, non dovrebbe valere! Non bisognerebbe accontentare Dio ma interiorizzare comportamenti che diventino l’Io di noi stessi: la nostra tridimensionalità (corpo-mente-spirito) nella trinità di Dio (Padre-Figlio-Spirito Santo); il nostro Io nelle orme di Dio. Al contrario, nella limitatezza del nostro essere umani, vale più che mai la sapienza di Qohelet che, essendo universale, mi sono permessa di interpretare e adattare al nostro momento storico con «continua a lasciare le tue tracce nell’esistenza di coppia: al momento giusto le ritroverai!». L’eterno femminino del creare, non solo un essere umano ma anche comportamenti autotrascendenti, si trasmuta per rimanere tale anche dopo la morte. * “Il Qohelet è un libretto di poco meno di tremila parole ebraiche, distribuite in 222 versetti e in 12 capitoli; eppure attorno ad esso si è infittita un’immensa bibliografia, segno di un’attenzione non solo esegetica ma anche popolare. L’ignoto autore, che non esita ad ammantarsi delle spoglie di Salomone, emblema biblico di regalità e di sapienza, si presenta con uno pseudonimo ebraico, Qohelet, che rimanda al vocabolo qahal, «assemblea», in greco ekklesìa, donde il greco-latino Ecclesiastes, divenuto la titolatura comune nell’Occidente cristiano di un’opera che è ancor oggi oggetto di differenti decifrazioni.” (G.Ravasi, 2006, p.5) Bibliografia Bruzzone D. (2001), Autotrascendenza e formazione, Milano, Vita e Pensiero. Doukhan J.B. ( 2007), Qohelet il richiamo dal caos, Dio, l’uomo e la ricerca della verità nell’Ecclesiaste. Fizzotti E. (1980), Angoscia e personalità, Napoli, Dehoniane. Fizzotti E. Carelli R. (1990), Logoterapia applicata, da una vita senza senso a un senso nella vita, Varese, Salcom. Fizzotti E. (1993), Chi ha un perché nella vita, Roma, Las.

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Attuazione dell’autodistanziamento e dell’autotrascendeza

Logoterapia e Analisi Esistenziale (V. E. Frankl)

Viktor Emil Frankl è il fondatore della terza scuola di psichiatria viennese (dopo Freud e Adler).
Come la psicoanalisi analizza le profondità dell’inconscio pulsionale, libidico, così la logoterapia sonda le profondità dell’inconscio noetico, spirituale e si focalizza sul logos, inteso come il “senso”, il significato, il perché.

Per la logoterapia il presupposto della salute mentale è la ricerca e la scoperta del senso personale della vita. L’obiezione cinica, tipica della cultura contemporanea, oppone alla speranza e alla fiducia la realtà sociale del crollo dei valori.
La ricerca ossessiva della felicità personale può deformare l’originaria domanda di senso. Frankl ci ha insegnato che più si vuole raggiungere la propria felicità, più si ottiene l’effetto contrario, a causa della iperriflessione. La felicità intesa come appagamento, non come semplice e puro piacere, deriva da un atteggiamento di apertura nei confronti della vita, dalle risposte che diamo alle richieste dell’esistenza. La tensione verso il logos (significato, senso) comporta una soddisfazione noetica (da NOUS = spirito, coscienza) che va oltre il principio omeostatico del piacere freudiano e talvolta può essere in contrasto con esso. Le differenze tra la visione freudiana e quella frankliana appaiono ancora più evidenti se si focalizza l’attenzione sul tema della “crisi esistenziale”. Per Freud essa rappresenta una forma di nevrosi, di malattia, mentre per Frankl costituisce un’esperienza naturale, necessaria, ineliminabile, poiché appartiene alla nostra più intima struttura d’essere.
Interrogarsi sul senso della vita, disperarsi di fronte all’assurdità apparente della propria situazione esistenziale è un fenomeno naturale della coscienza, del NOUS, che comporta coraggio e onestà intellettuali ; il guardare in faccia, senza infingimenti, la propria problematica esistenziale implica l’essere pronti ad osservare cose sgradevoli, che vorremmo rimuovere.
Al contrario, una vita disimpegnata, senza obblighi, scopi, sfide, costruita mediante la frustrazione delle maggior forza motivazionale in nostro possesso, cioè della “volontà di significato” rappresenta franklianamente una forma di nevrosi sconosciuta alla psicoanalisi : la nevrosi noetica. Frankl, nei centri giovanili di prevenzione del suicidio, aveva compreso che l’unico modo per capire il disagio altrui era quello di rinunciare ai propri parametri intellettuali, alle categorie psicologiche, ponendosi in un rapporto paritetico IO-TU, da persona a persona, come compagni di viaggio nella ricerca di senso.
Scoprire la possibilità di scelta, attivare in senso positivo l’immaginario, significa preparare un allargamento dell’orizzonte intenzionale, mostrando la gamma di alternative.
Il disagio esistenziale è spesso causato da un impoverimento dell’orizzonte che si riduce ad un’unica possibilità di senso, quindi ad una perdita della possibilità di scelta.
L’analisi esistenziale, nel presente, tende all’attuazione dei progetti individuali, calibrati secondo le attitudini personali, gli interessi, le aspirazioni, le qualità del carattere, mediandoli con i diversi compiti apparentemente meno significativi che la vita ci propone nella quotidianità. Focalizzando questi compiti, la logoterapia si impegna ad esplicitarne il senso in essi racchiuso, a prima vista indecifrabile, senza commettere l’errore di inventarlo.
Il NOUS ( spirito, coscienza ), per ricercare il senso della vita deve attuare i seguenti. passaggi :

LIBERAZIONE DAGLI ATTEGGIAMENTI MALSANI, tramite l’analisi esistenziale, che si avvale di tecniche dialogiche e di anali dei sogni . In questa prima fase il soggetto prende coscienza che esiste in lui una volontà di significato che non deve essere rimossa. Egli si impegna a salvare le sua vita dal non senso e dal fatalismo.

EVOCAZIONE DELLE POTENZIALITA’ NOETICHE LATENTI, tramite l’analisi esistenziale, l’analisi dei sogni, l’oniroterapia, il logodramma, le visualizzazioni guidate. All’evocazione delle virtualità positive segue la presa di coscienza e la successiva integrazione : i nuovi atteggiamenti positivi vengono integrati con i vecchi già consaputi.

MEDITAZIONE SULLA TRIADE TRAGICA E SUGLI EXISTENTIALIA, sulle tematiche della sofferenza, della colpa, della morte, della libertà, responsabilità, unicità etc. Si affronta la dialettica progetto-fallimento attraverso l’analisi dei propri vissuti intenzionali. La scelta noetica fa si che la persona si senta a posto con il “proprio se stesso” heideggeriano, prevenendo le fughe della psiche ( alibi, scuse, rinvii ) dettate dalla paura di realizzare progetti ardui e difficili. Il fantasma del fallimento può essere riproposto dalla psiche per boicottare la realizzazione del progetto e frustrare la volontà di significato alleata al NOUS.

Autodistanziarsi noeticamente significa allontanare lo sguardo da se stessi, dai propri particolari somatici e psichici, dai cosidetti sintomi, che invece vengono focalizzati da altre forme di analisi. Anche la logoterapia ha bisogno di segni da cui partire per ricercare il logos, ma non li ricerca a livello introspettivo, essendo convinta che l’iperriflessione su se stessi impedisce di cogliere in profondità il proprio “esser così”, la propria essenza. L’autodistanziamento permette di allontanarci dal vissuto psichico emotivo, dagli impulsi contraddittori, conquistando quella distanza critica che ci rende capaci di distinguerli dalle ragioni del cuore : solo allontanandoci da noi stessi possiamo discriminare i moventi che ci attirano dalle cause impulsive che ci condizionano. L’apertura verso gli altri in un atteggiamento di amore e di dedizione rappresenta la vetta del training logoterapeutico, l’autentica autotrascendenza.

TRATTAMENTO IPNOlogoTERAPEUTICO DI UNA RAGAZZA IN CRISI

Il caso di Francesca (si tratta di nome convenzionale) rappresenta la storia del suo disagio dovuto ad un conflitto esistente tra il “padre buono” interiorizzato durante l’infanzia e il “padre cattivo” che la madre le ha voluto imprimere attraverso ripetuti messaggi svalutativi. Questo conflitto causava a Francesca dei malsani preconcetti nei confronti dei partners. Il suo caso è stato seguito sulla base di modalità terapeutiche sia di stampo frankliano, come la maieutica socratica, sia con la logoterapia dei sogni e la logodinamica subliminale di F. Brancaleone (inserimento durante il colloquio e l’ipnosi di “cancellazioni”, “generalizzazioni” e “deformazioni” per stimolare, a livello subliminale, le potenzialità profonde).

Presentazione anamnestica.

Francesca è una ragazza di 24 anni, con maturità artistica, svolge un’attività con mansioni di grafica pubblicitaria. Vive con la madre ed un fratello. Ha una sorella sposata da alcuni anni. Il padre è separato dalla madre e risposato da tre anni. Già dal primo colloquio emerge il “ricordo negativo del papà che non era affettuoso”. Il motivo per cui si presenta è un “gran senso d’inferiorità nei confronti dei colleghi maschi, stati confusionali, timore nell’esprimere i propri pensieri, timidezza e mancanza di fiducia nei confronti degli uomini in generale”. Emerge però un buon rapporto, fin da bambina, con il fratello più giovane di due anni. Quindi non è tutto da ristrutturare il modello maschile introiettato da Francesca grazie a questo buon rapporto.

Nel raccontare gli aspetti salienti della sua vita Francesca evidenzia con enfasi le sensazioni di disagio che provava ogniqualvolta il papà doveva assentarsi da casa per lunghi periodi a causa del lavoro e la sofferenza che viveva nel notare la contentezza della madre all’uscita da casa del padre. Evidentemente Francesca viveva un penoso conflitto perchè amava il padre ma doveva trattenere i suoi slanci affettivi in quanto la madre le presentava sempre e solo gli aspetti negativi del padre. Diceva infatti “quando arriva il papà porta solo problemi con sè”. Quindi Francesca cresce con l’idea che il papà è una persona da estromettere, una persona che ha soltanto difetti e che tradisce. Con la sorella sposata è sempre esistito un conflitto di fondo: “venivamo sempre messe a confronto dai parenti del papà e dal papà stesso”; questo ha determinato un forte spirito di competizione e un grave senso di inferiorità anche perchè “per mio padre io ero la bella e mia sorella l’intelligente”.

Dai tests di Wartegg e di Sacks emerge quanto segue: Sensibilità d’animo fine e profonda, dolcezza, buon rapporto con la sua parte femminile, spiccato senso materno. L’Io attuale è in fase di evoluzione. La progettualità tende ad essere altalenante. La pulsionalità un pò statica, desiderio di tenere sotto controllo la sessualità; buona affettività e delicatezza d’animo, personalità creativa, riesce ad instaurare un ottimo rapporto qualitativo con le persone, deve solo fidarsi di se stessa. Desiderio di autoconoscenza, non apertura totale con la madre. Timore di inoltrarsi troppo nei meandri dell’inconscio. Buona capacità di sintesi. Un pò critico il rapporto con le persone in generale. Ma quello che salta agli occhi è il forte desiderio di recuperare l’immagine paterna. Francesca non riesce ad instaurare nessun tipo di dialogo col padre, nè, tantomeno, ad abbracciarlo.

Il fatto di ripetere più volte questo particolare mette bene in evidenza il suo disagio esistenziale relativo al rapporto con il padre e con i propri valori, scopi e significati

CONSIDERAZIONI ANTECEDENTI L’INTERVENTO TERAPEUTICO

Questa ragazza si è identificata in una donna, la madre, che ha il solo compito di difendere i figli dalla figura del padre. Un uomo che, per la madre, è sempre negativo perchè assente per il lavoro, critico, un padre che fa confronti, che svalorizza, che deride, che tradisce, quindi un padre immaturo che non merita assolutamente il perdono. Apparentemente la madre sembra la vittima passiva perchè ha dovuto subire; in realtà è la persona attiva della coppia genitoriale in quanto ha affrontato da sola tutto il discorso dell’educazione e della gestione della famiglia (se stessa e i tre figli). In realtà è il padre la vittima in quanto non ha mai potuto instaurare un dialogo con i figli, quindi ha cercato fuori casa un supporto psicologico che ha trovato nella donna che ha poi sposato. Francesca soffre molto per il bisogno che la madre avverte di estromettere il marito dai suoi affetti. Cresce con l’idea che il papà non meriti nulla e ciò vale anche per i ragazzi che conosce. Evidentemente c’è un forte conflitto di valori tra conscio e inconscio e da ciò la percezione degli stati confusionali e la tristezza. Francesca utilizza la comunicazione ermetica, sembra quasi anaffettiva , lo sguardo un pò fisso, l’atteggiamento quasi rinunciatario come se non ci fosse niente da fare di fronte al fatto che l’uomo è immaturo!. Ritengo utile intervenire per la ristrutturazione degli schemi rigidi che possiede ma devo cercare anche di allentare il conflitto presente tra la sua struttura superficiale e quella profonda. Mi sono accorta, infatti, che mentre parla del papà inclina un pò la testa verso sinistra (auditiva interna: infatti ricorda le parole del papà), gli occhi si rattristano, eppure mi dice che non le interessa per nulla il papà, che sta venendo da me solo per capirsi! Devo evitare assolutamente di parlarle del padre almeno a livello logico. Nella comunicazione analogica, durante il colloquio, inclino anch’io un pò la testa verso destra in modo da indurla a fare lo stesso proprio mentre mi esprimo metaforicamente. Mi si aggancia subito. Trovata la chiave d’accesso, mi organizzo mentalmente per intervenire con l’ipnosi logoterapeutica. E’ una persona che utilizza canali comunicativi di tipo cenestesico, visivo e auditivo (cenestesico: parla lentamente, privilegia evidenziare le sue emozioni, i sentimenti, e le sensazioni, comunica con il corpo, guarda verso il basso; visivo: ricorda per immagini, guarda verso l’alto; auditivo: ricorda particolari sonori, usa sostantivi attinenti alla sonorità.) A questo punto, dopo qualche colloquio, raccolgo tutto il materiale che ho a disposizione soltanto per quanto riguarda la sua comunicazione digitale (verbale-coscienziale) per poter costruire le metafore in chiave logoterapeutica. Lavoro quindi su termini come” non era affettuoso”; “quando arrivava (il papà) portava problemi”; (il papà) “faceva sempre confronti”; “venivo considerata timida e chiusa”; “non aveva fiducia in me”.

INTERVENTO LOGOTERAPEUTICO.

Siccome percepisco da parte di Francesca l’aspettativa che io intervenga sul suo vissuto nei confronti della figura paterna, per evitare che metta in atto delle resistenze, inizio ad evitare il più possibile di parlare del padre in modo da stimolare la struttura profonda. Probabilmente si chiede il motivo per cui non le propongo di parlare del padre. Le chiedo di parlarmi delle doti della madre, della sorella, del fratello e, già che ci siamo, anche di quelle del padre anche se, dico, immagino che non ce ne siano. Reagisce! “Si, ce n’è qualcuna!” Ah!… ma è proprio sicura? rispondo. Provocandola in questo modo, inizia a sbloccarsi dicendo che il padre, da bambina, la portava con sè a pescare e le raccontava delle belle storie, che è sempre stato un buon lavoratore, è simpatico, dolce, amante della natura, riflessivo, spiritoso, avventuroso e intelligente. Intanto emerge che l’attuale partner rispecchia molto il carattere del ‘padre criticato’ non del padre reale, quello con le buone qualità. Una breve parte delle sedute è di tipo psicagogico-digitale focalizzato soltanto sull’atteggiamento da tenere mentre riflette sull’immagine del suo partner attuale che dimostra una personalità infantile; in realtà lavoro sulla struttura profonda e la stimolo verso una possibile ristrutturazione nei confronti di suo padre. Limitando la psicagogia ad una indicazione comportamentale momentanea, realizzo nel setting una maieutica attraverso il suo insight, cioè il suo parto coscienziale. Questo avviene dopo alcune sedute. Solo quando riesce ad accorgersi che il partner non è soltanto quello che dimostra di essere capisce che anche il padre può essere visto dal punto di vista di Francesca stessa, non per come la madre le ha fatto credere fino adoggi. Quindi, grazie alla maieutica socratica, la stimolo a mettere in discussione le sue concezioni sbagliate sul padre e a “partorire” il padre positivo che aveva dentro. Finora i partners di Francesca, compreso quello attuale, erano ragazzi inconcludenti, inaffidabili e con scarsa personalità, proprio come sua madre ha sempre descritto il proprio marito. Grazie al lavoro di analisi del comportamento che Francesca inizia ad attuare nei confronti dell’attuale ragazzo, emerge per lei che ogni squilibrio palesa un problema. Questo comporta la presa di coscienza che anche il padre probabilmente poteva aver avuto delle lacune caratteriali e affettive che colmava a suo modo. Nella mente di Francesca inizia, piano piano, ad aprirsi un varco, e da qui l’inizio della ristrutturazione.

L’aiuto maieuticamente a spostare l’attenzione dalla triade madre-sorella-fratello alla persona del padre. Però non enfatizzo ancora gli aspetti positivi del carattere del padre perchè attendo che sia lei a portarmi verso il suo sblocco psicologico nei confronti del padre. Percepisco che può farlo da sola. Anche nell’elaborazione del Sacks sfioro soltanto le considerazioni scritte nei confronti del padre e noto che è lei a parlarne. Razionalmente attacca il padre dando così ragione alle critiche che la madre gli muove, ma nel test esprime il bisogno di superare il conflitto, infatti la frase “se mio padre solamente volesse” viene completata con “rivedermi…” e la frase “io ho l’impressione che mio padre sia” viene completata con “diventato più disponibile nei miei confronti”. Probabilmente è Francesca ad essere, oggi, più disponibile nei confronti del padre. Al padre, del resto, non è mai stato permesso di esternare i propri sentimenti.

Gli interventi logoipnotici li programmo rispettando il più possibile le strutture logiche ed analogiche utilizzate da Francesca durante i colloqui. In genere dopo l’induzione stimolo l’approfondimento della trance con la tecnica dell’hard confusion.

Nel nuovo stato alternativo di coscienza di Francesca presento storie che coincidano con il suo quadro di riferimento storico-familiare per modificarne il significato.

Ritengo utile inserire, fra i ricalchi e le guide, alcune disseminazioni metaforiche sempre inerenti il suo passato affettivo con il padre:

Ecco un breve esempio: lungo il fiume… un uomo forte e una bambina… stanno pescando…

lui è sensibile… ai movimenti della lenza… alla presenza della bambina… lui è attento… allo sciacquìo dell’acqua…bella…trasparente… ai bisogni della bambina… l’esca in fondo… può portare in superficie qualcosa che scopre… può trovare qualcosa… può portare fuori qualcosa… e mentre si pesca… nell’inconscio…si può trovare qualcosa…e riportare alla luce e mentre si pesca…nell’inconscio… si può capire… una donna…(lei)

può capire…

che può avvicinarsi… come quando quella bambina… in qualche modo… guarda la pesca con…tenta di avvicinarsi… all’uomo forte…

con…tenta di avvicinarsi… all’uomo sensibile… (elenco tutti gli aggettivi usati da lei per definire gli aspetti positivi del padre).

A livello logico, naturalmente le frasi vengono decodificate nel senso di ‘contentezza per l’avvicinamento’ come quando era bambina, mentre a livello profondo il senso si decodifica come ‘tentativo di avvicinarsi’ oggi che è donna, ad un uomo con tante qualità. Mentre pronuncio “tenta di avvicinarsi…e prima o poi… si avvicinerà…” modulo la voce e ricalco nel futuro durante l’espirazione. La stessa cosa avviene quando dissemino concetti di accettazione e di accoglimento di un uomo che può anche aver sbagliato ma, ad un certo punto, capisce e riesce a rimediare. Cerco di ricalibrare certi concetti della struttura profonda in conformità ai canali preferenziali di Francesca. Sempre in stato di trance lavoro attraverso il canale cenestesico sulle emozioni, sui sentimenti e sulle sensazioni positive e negative nei confronti del padre; il canale visivo è utile per rivivere le scene e ampliarle disseminando possibilità di cambiamento mentre il canale uditivo mi permette di rinforzare il campo affermativo rivivendo i suoni a cui la paziente è legata (la voce del padre, lo stormir delle fronde, lo sciacquìo del fiume ecc.)

Spesse volte, tra i ricalchi e le guide pronuncio la frase “si può cambiare” sia per modificare ulteriormente lo stato di trance sia per rinforzare la “possibilità di ristrutturarsi” a livello profondo.

Nel dialogo maieutico Francesca impara a considerare i fatti della sua vita passata cercando di attivare la sua memoria rimossa nei confronti delle emozioni e dei sentimenti per il padre. Lavorando sul confronto tra passato e presente, sulle generalizzazioni notando le contraddizioni, con l’analisi dei sogni, e con le libere associazioni, è stato possibile distruggere tante certezze malsane. La frase del padre “tu sei la bella e tua sorella è l’intelligente” che era vissuta da Francesca come una critica negativa e limitante, l’ho ristrutturata riconsiderandola come stimolo positivo. Ho aiutato Francesca a riflettere a quanto è stata utile questa critica per stimolarla ad attivare, dentro di sè, la sua potenziale intelligenza, il suo vasto orizzonte noetico. Proprio grazie a questa critica lei si è impegnata con se stessa a studiare e ad arrivare al traguardo che ha raggiunto oggi. La presa di coscienza di questa possibilità messa in atto ha modificato il sistema di valori, significati, scopi di Francesca sia nei suoi confronti (non sono intelligente) sia nei confronti del padre (vissuto come persona capace solo di criticare)

Inconsciamente Francesca ha attuato la tecnica del “come se” di Crumbaugh stimolando le proprie potenzialità profonde a comportarsi come se lei fosse intelligente. C’era probabilmente un’autentica motivazione al cambiamento (cambiare agli occhi del padre) che ha illuminato noeticamente la meta da raggiungere.

Francesca ha capito che l’emozione della “paura di parlare con suo padre” aveva generato il sentimento dell’”angoscia esistenziale”; che l’emozione della “rabbia” aveva generato il sentimento dell’”indignazione” nei confronti dello stile di vita del padre; ma ha capito anche che scegliendo di venire in studio, le sue aspettative profonde hanno potuto ascoltare le ragioni del cuore esplicandosi, come bisogno noetico, nel sentimento della “speranza”. Ha capito anche che l’emozione dell’”infatuazione edipica” non aveva ancora avuto modo di autotrascendersi nel sentimento dell’”amore, amore figliale” profondo per il padre.

Dopo dieci incontri Francesca entra in studio sorridente e, senza inclinare più la testa, esordisce così: “domenica ho parlato a mio padre, è stato strano… mi è sembrato di vederlo per la prima volta…

La rivalutazione dei valori affettivi del passato, ha permesso a Francesca di ristrutturarsi nel presente a livello inconscio e di comportarsi di conseguenza percependo, a livello conscio, quello slancio noetico verso una persona, il padre appunto, che le condizionava tutte le scelte esistenziali.

Dal nonsenso della pedofilia al senso della relazione Io-Tu

progetto clinico, ma l’ordine lo stabilisce, non razionalmente, sempre e solo il paziente quando scopre il suo logos. 2.4. La libertà disorientata È un autoinganno pensare che la libertà sia solo fare ciò che si vuole, andando contro qualsiasi valore oggettivo e soggettivo. Un classico esempio è quello dell’adolescente che si oppone a qualsiasi regola familiare comportandosi come vuole e soddisfacendo qualsiasi bisogno di trasgressione. È funzionale all’adolescenza ribellarsi ma non lo è fino a calpestare i propri e altrui valori. Egli crede di crescere, magari costringendo un bambino a sottomettersi alle sue stravaganze pulsionali ma, in realtà, si ferma e regredisce perché reprime il suo mondo valoriale che ha scoperto nei suoi genitori o nelle persone di riferimento umano. Il suo senso di responsabilità in fieri e la sua volontà di senso vengono rimossi per conformarsi al mondo dei coetanei che si ribellano alle norme valoriali. Facendo ciò che sente di voler fare, l’adolescente ribelle va contro tutti e tutto. In questo caso, dipende da un «dover fare» per stupire o per punire o per far credere di esser diventato adulto: in sintesi, dipende ancora dall’adulto, dal suo «impastamento» con il mondo adulto. Mancano del tutto la libertà da e la libertà di scelta. Adulto sarà quell’adolescente che sceglierà di non dover più dimostrare qualcosa a qualcuno ma di godere nel fare le cose che sceglie liberamente, sapendo di esserne pienamente responsabile e solo per scelta personale, senza nessun condizionamento.«L’uomo in quanto tale è già da sempre al di là delle necessità – pur se al di qua delle possibilità. L’essere umano è sostanzialmente un essere che trascende le necessità. Ovvero, egli “è” solo in relazione alle necessità, ma in libero rapporto con esse. Sul livello in cui si trova la dipendenza dell’uomo non sarà mai possibile reperire anche la sua autonomia» (Frankl, 2001c, p. 87). Se consideriamo l’uomo come essere pulsionale, quindi legato solo all’istinto, rischiamo di «determinarlo soltanto nell’unidimensionalità» deprivandolo del diritto di scoprire e vivere la sua indiscutibile tridimensionalità. Se ciò da cui si è liberi è il «non essere spinti», che richiama piuttosto una concezione istintiva e puramente deterministica dell’uomo, ciò per cui si è liberi è «l’essere responsabili», che corrisponde a una visione dinamica, significativa, prospettica dell’uomo, orientato fondamentalmente alla realizzazione e all’adempimento di un compito esistenziale e personale. Ed ecco che l’analisi esistenziale, elaborata da Frankl, s’incentra sull’uomo quale essere responsabile, capace di superare il livello della pura istintività e di cogliere, autonomamente e liberamente, i propri compiti, scoprendosi così irripetibile e unico (Fizzotti e Gismondi, 1991, p. 133). 2.5. Un nuovo compito da realizzare Il logoterapeuta non utilizza la persuasione logica nel tentativo di dissuadere la persona con pedofilia dai suoi comportamenti, ma stimola in lei il suo poter-essere diversa, non danneggiando più l’Altro-bambino ma scoprendo il vero logos della propria esistenza. L’intento di ciò che ho chiamato logoterapia è quello di inserire il logos nella psicoterapia. Il compito dell’analisi esistenziale è, invece, quello di assumere l’esistenza nella psicoterapia. La logoterapia, comunque, non solo presuppone lo spirituale, ossia il mondo oggettivo del senso e dei valori, ma lo inserisce attivamente nell’approccio psicoterapeutico. L’analisi esistenziale, d’altra parte, non si limita a presentare il logos in termini di obbligazione morale, di dover-essere, ma va oltre, destando nell’esistenza le potenzialità da rendere attuali, il poter-essere (Frankl, 2001b, p. 29). Le domande sul senso della propria vita e la riscoperta dei propri valori sani e funzionali mettono la persona con pedofilia nella condizione di poter-essere diversa mentre si ripropone alla vita, alla sua vita. Grazie a Frankl che ha saputo riumanizzare l’approccio alla persona in difficoltà, ogni essere umano può aspettarsi di ricevere un aiuto personalizzato che lo guidi verso le «sue»soluzioni. L’uomo di Frankl, per essere in sintonia con se stesso e con il mondo, deve essere 6

teso costantemente all’attuazione pratica e operativa di un compito personale che abbia un senso intrinseco sano ed equilibrato, mai insano e ossessivo come è quello pedofilico. «La logoterapia non dà un significato alla vita del paziente, anzi vuole che il paziente trovi da se stesso il significato della sua vita» (Frankl, 2005a, p. 29). Il nuovo significato che la persona con pedofilia scopre sia nella dimensione psichica che nella dimensione noetica non può assolutamente prescindere dalla dimensione fisica, cioè da tutto ciò che il suo corpo fa:il suo comportamento oggettivo deve manifestarsi in modo diverso perché vi è, alla base, una scelta personale voluta, decisa, pensata. Solo allora vi sarà equilibrio nella tridimensionalità dell’essere. «Un’intima connessione lega dunque le tre dimensioni dell’ontologia frankliana, tutte coinvolte nel divenire del processo formativo: il corporeo (come semplice possibilitazione) necessita dello psichico (come sua realizzazione) ed infine dello spirituale (come suo compimento)» (Bruzzone, 2001, p. 383). Il nuovo compito da realizzare, quindi, dipende dal tutto tridimensionale interagente e solo quest’ultimo conduce all’autorealizzazione della persona che decide e non dipende mai dalla convinzione che il problema non esiste più solo in quanto non si ripresenta più. Come sostiene anche la psicologia dell’educazione un vero intervento psicoeducativo non distrugge ma crea nuove modalità, più evolute, di espressione e di comunicazione. Sostituisce attivamente e si ritiene completato con successo quando il comportamento problema è stato sostituito da comportamenti più evoluti, non quando il comportamento problema non si manifesta più. Se puntiamo invece soltanto all’eliminazione del comportamento problema, questo ritornerà in altra forma, perché non abbiamo affrontato il senso e la funzione reale del comportamento stesso (Ianes e Cramerotti, 2002, p. 24). La fase dell’autorealizzazione non deve mai essere fine a se stessa ma si colloca in un percorso di maturazione che laattraversi per affrancarsi dai condizionamenti biologici, psicologici e sociologici al fine, poi, di autotrascendersi verso il Tu (dell’altro o dell’altra cosa). L’autorealizzazione non è legata ad uno sviluppo più o meno spontaneo di possibilità già presenti in nuce nella personalità, come vorrebbe una certa filosofia «potenzialistica» che riscuote anche oggi vasti consensi; la realizzazione di sé si compie piuttosto nell’autotrascendenza verso il «mondo» dei significati oggettivi e dei valori ovvero in una sempre maggiore apertura e partecipazione del soggetto alla verità dell’essere (Bruzzone, 2001, p. 382). Nella prospettiva della logoterapia frankliana l’essenza più specifica dell’essere umano sta nel trascendere se stesso, dirigendosi verso l’Altro, mai per danneggiarlo. La persona con pedofilia, come tante altre persone, non è nemmeno consapevole di poter trascendere se stessa e di potersi offrire incondizionatamente all’Altro. Emerge spesso, nel setting logoterapeutico, che la persona è talmente convinta di essere pedofila da non riuscire nemmeno a ipotizzare di potersene liberare. «Vediamo […] come proprio la paura di essere perverso stimoli per modo di dire l’ammalato ad autosedursi, a mettere cioè a sempre rinnovata prova la sua reazione istintiva, appunto perché teme che la sua enorme perversione, non curabile, abbia a manifestarsi» (Frankl, 1974, p. 85). «Duplice è l’intento della logoterapia: non diversamente dalla psicoterapia delle nevrosi, essa deve indirizzare e spingere il paziente ad oggettivare il fenomeno morboso e a distanziarsi da esso» (Frankl, 1978, p.69). «L’atteggiamento autocentrato, negando la tensione soggetto-oggetto, interno-esterno, indispensabile per attingere i significati autentici dell’esistenza, non solo sprofonda la persona nel vuoto esistenziale, ma rappresenta al tempo stesso un modo certo per garantirsi l’infelicità» (Fizzotti, 1998, p. 83). L’essere umano con pedofilia, trattato da persona e non da mostro, riesce a responsabilizzarsi e a scoprire il richiamo patologico irrefrenabile in cui è scivolato, per poi uscirne. L’impulsività non può avere il sopravvento sulla ragione. «La realtà dell’uomo è una possibilità, il suo essere è un poter essere. Il possibile viene così riconosciuto e definito come struttura dell’essere-uomo, e l’atto di libertà con cui l’uomo progetta se stesso consiste essenzialmente nello svolgere le possibilità implicite nella sua esistenza» (ibidem, p. 63). 7

2.6. Dalla parte del bambino È molto importante offrire al bambino, nell’immediato dell’abuso che subisce in famiglia, un contenimento affettivo che gli garantisca continuità; nel contempo, è importante evitare qualsiasi atteggiamento demolitivo nei confronti sia dell’abusante che della sua famiglia. Sembra strano ma, a volte, i bambini abusati o molestati, che subiscono quotidianamente comportamenti devianti da parte di un familiare, possono anche accettarli pur di non spezzare il legame relazionale, l’unico esistente, anche se patologico. È dannoso il fatto che il bambino abusato scopra che la persona con pedofilia venga solo emarginata, condannata e punita. Egli impara che il male si cura con il male quindi interiorizza un modello di comportamento vendicativo, punitivo, letale. Probabilmente quel bambino diventerà, a sua volta, un adulto disturbato, magari non necessariamente dalla pedofilia ma da un carattere vendicativo. Il bambino abusato non deve nemmeno crescere con l’idea che chi si comporta male non verrà punito e potrà fare ciò che vuole in futuro; ma deve interiorizzare che ogni problema, anche grave, possiede in sé la sua soluzione nella misura in cui ognuno si impegna, con spirito di abnegazione, a correggersi per non ricadere nello stesso errore (Marconi, 2005, p. 17). Il bambino molestato o abusato crea dentro di sé delle dinamiche autoprotettive che, nel tempo, si strutturano come miti nei quali, inizialmente, si rifugia per difendersi ma dai quali necessita di uscire psicologicamente. Molto spesso si crea il mito della vittima nel quale si acquieta passivamente e da cui fatica a uscire da solo. Se questo mito rimane tale fin dopo l’adolescenza, l’adulto portatore del mito diventerà e rimarrà una persona che vive la vita in modo vittimistico, non liberandosi mai dal passato. 2.7. Il senso del proprio esistere La «ricerca del senso della propria vita» come consapevolezza psiconoetica inizia, in genere, nel periodo preadolescenziale quando la mente esce, piano piano, dalla dinamica del mito (del ribelle, della vittima, dell’onnipotente, dell’incompreso, ecc.) ed entra in quella del senso. Molti giovani che vivono turbamenti emotivi, caratterizzati magari da dubbi sulla propria sessualità, sulla propria identità, o hanno subìto delle molestie, non sanno a chi rivolgersi e non pensano che ci possa essere qualcuno in grado di sciogliere i dubbi e le angosce personali ed esistenziali che si manifestano alla loro coscienza. Il senso della vita non viene minimamente considerato come un dirittodi ognuno e i giovani «si lasciano vivere» non raggiungendo mai né la consapevolezza del senso né, tantomeno, la piramidalità e il parallelismo valoriali. Un giovane che, per esempio, si senta turbato da spinte pedofiliche e non riesca a far chiarezza dentro di sé si lascerà fuorviare dalla sua pulsionalità. La «ricerca del senso della propria vita» come domanda di senso adolescenziale può ripresentarsi spesso durante l’arco dell’esistenza, cioè tutte le volte che la persona deve affrontare un evento luttuoso o un fatto doloroso e il crollo del senso la costringe a doversi «ricontestualizzare in un nuovo quadro di riferimento esistenziale». Non solo. Accade a ogni essere umano di uscire da un periodo (infantile, adolescenziale, genitoriale, lavorativo, relazionale) e di entrare nella fase successiva avendo la sensazione di dover rimettere in ordine la propria gerarchia valoriale. All’inizio ci si sente smarriti, poi, pian piano, ci si dà un ordine interno per affrontare la nuova fase e per viverla in modo sereno, più maturo, sia psichicamente che spiritualmente. Nella «fase del riordino» è facile cadere nella trappola della tristezza, ma saranno i valori del coraggio e della fiducia a ridare speranza e motivazione alla persona. La logoterapia mette la persona nella condizione migliore per comprendere il senso della propria vita sia nella direzione del passato che in quella del presente. Guardando al passato le permette di scoprire la significatività di specifiche azioni svolte e di situazioni vissute: rimette in un bell’ordine equilibrato tutto ciò che riguarda il bagaglio personale psico-noetico dell’individuo. Proprio per far ciò, bisognerebbe sempre spiegare a un ragazzo che i dubbi o i comportamenti che ha vissuto nel passato devono essere capiti per evitare di crescere credendosi dei mostri o dei 8

malati. Dare senso a un comportamento scorretto o, in casi gravi, a un pensiero aberrante aiuta a scoprire la propria autostima e a riprendere la propria vita in modo sereno. Guardando invece al presente, l’analisi esistenziale mira alla realizzazione dei progetti individuali, possibilmente adeguati alle attitudini personali, agli interessi e alle aspirazioni, senza alcun condizionamento esterno e permette di esplicitare il «senso racchiuso», a prima vista indecifrabile, senza commettere l’errore di inventarlo. Quando il «senso della vita» è sufficientemente chiaro alla coscienza – intesa come organo di significato – bisogna permettere ai giovani di crearsi, inizialmente, una gerarchia piramidale perché solo in questo modo riescono a camminare da soli. Il giovane che avverte di possedere un valore in posizione elevata, ad esempio quello dell’amicizia, si comporterà in modo tale da tutelarlo: s’impegnerà per non tradire gli amici; creerà situazioni d’incontro; difenderà ogni cosa che appartenga agli amici; insomma, sarà tutto proteso alla cura amorevole del valore dell’amicizia. Se si sentisse minacciato da genitori insensibili, che lo osteggiano in questo suo tentativo, potrebbe entrare in crisi. Per lui, in quel momento, l’amicizia è un punto di riferimento affettivo-sociale che apre la sua mente al mondo esterno. In questo caso il valore dell’amicizia è indiscutibilmente posizionato al vertice di una piramide che è ancora poco conosciuta dal giovane e non credo che riesca a crearsi dei valori paralleli se non ha esperito, in precedenza, una propria gerarchia piramidale. Il giovane, proprio per la tendenza che lo caratterizza a estremizzare ciò che vive, non si rende ancora conto di farlo anche con i suoi valori. Ha bisogno di tempo e di esperienze: sarà poi lui a decidere come vivere i suoi valori. Se pensiamo a un ragazzo che, diventato adulto, non sia riuscito a modificare la posizione del valore dell’amicizia, possiamo immaginarcelo come un uomo che vive in funzione dell’amicizia: non riesce a crearsi una relazione di coppia perché mette sempre la sua partner in posizione subalterna rispetto agli amici; non riesce a realizzarsi professionalmente perché troppo distratto dai progetti da realizzare con gli amici; diventato padre, trascura il suo ruolo genitoriale venendo meno ai suoi doveri e via dicendo. Ecco quindi l’importanza di riordinare, dopo l’adolescenza, la gerarchia valoriale in modo che proceda parallelamente nel vissuto della persona che la ospita. Si può affermare che persone con un sistema di valori paralleli hanno un equilibrio interiore più stabile che non persone con un sistema di valori piramidali. La loro stabilità poggia sulle molteplici possibilità di realizzare il senso della vita, che è da una parte la base per la comprensione e la tolleranza reciproche e dall’altra può essere l’àncora di salvezza nel caso vada perduto il contenuto della vita ritenuto più importante. Mentre gli individui con sicurezze parallele conservano facilmente la loro capacità di vivere anche in situazioni critiche, grazie al loro sistema multiplo di valori, le persone con sicurezze piramidali perdono rapidamente, anche per motivi futili, il loro sostegno e precipitano nella disperazione (Lukas, 1991, p. 28). 3. L’autodistanziamento dalle pulsioni pedofiliche La logoterapia non si muove a livello introspettivo, in quanto sa che l’iperriflessione su se stessi non solo rischia di creare un pensiero ossessivo (di tipo paranoideo o ipocondriaco) ma impedisce di intuire e di entrare in contatto con le profondità del proprio «esser così», della propria «essenza». L’autodistanziamento permette l’allontanamento dai propri vissuti emotivi, dagli impulsi contraddittori, conquistando un’equilibrata distanza critica. Allontanarsi dai propri vissuti emotivi non significa assolutamente negare le proprie emozioni. La vita delle emozioni che si attiva nella psiche di ogni individuo deve mantenersi tale ma dev’essere guidata intenzionalmente. Distanziarsi dalle proprie emozioni significa dare a se stessi la possibilità di non farsi fagocitare da emozioni estreme (pulsionali). Ogni emozione che estremizzi dei comportamenti sia nei confronti degli altri sia nei propri rischia di bloccare la mente in un vortice autodistruttivo. Solo «allontanandoci» da noi stessi possiamo capire la differenza tra ciò che ci attrae e ciò che ci condiziona perché quando ci si trova in una situazione di invischiamento emotivo si è troppo coinvolti e non si ha la capacità di decidere liberamente e responsabilmente. Per avvicinarci alla nostra essenza dobbiamo allontanarci da noi stessi: solo così ci avvicineremo alla parte più autentica 9

di noi stessi, al nostro «esser così come siamo» unico e irripetibile, quindi anche alla possibilità di capire ciò che decidiamo di essere da ciò che ci condiziona. La saggezza della coscienza non è la conoscenza compiuta e minuziosa della propria interiorità, bensì il sapere alimentato dalle emozioni intenzionali. L’autodistanziamento, come moto psiconoetico, permette di distinguere due moti interiori diversi tra loro: le emozioni intenzionali e le emozioni pulsionali *. Le prime hanno sede nella ragione e sono gestibili, le seconde sono primordiali, cieche, impulsive; però si sentono (in un secondo momento) e quindi sono gestibili anch’esse. Con l’autodistanziamento si attiva l’integrazione e l’equilibrio dei due tipi di emozioni e la persona con pedofilia impara a percepirsi anche in queste sue parti personali e uniche e, nel tempo, prova una sensazione di sollievo psiconoetico. La libertà è raggiunta nel momento in cui il suo possessore ne fa l’uso migliore per sé senza mai danneggiare l’Altro. L’importante è non cadere nelle maglie dell’imbroglio della malafede, come succede quando si sostiene di essersi liberati da un condizionamento ma, nello stesso tempo, si continua a essere in conflitto con esso. * Scheler (nella sua opera Der Formalismus in der Ethik del 1927) distingue gli stati emotivi (passivi) dalle funzioni emotive (attive) che reagiscono in modo appropriato agli stati emotivi. I primi non hanno carattere intenzionale quindi sono ciechi e disordinati. Grazie alle funzioni emotive (che Scheler chiama anche intuizioni emotive) che possiedono intenzionalità, vengono modificati gli stati emotivi. Le emozioni intenzionali accompagnano e guidano l’azione anziché bloccarla e mantenerla schiava delle emozioni pulsionali (o stati emotivi). “L’emozione deve essere intenzionale, cioè aperta al senso che ancora non c’è a livello logico, ma che si può trovare…” (Giordano, 2001, p.46). 3.1. Le emozioni pulsionali nella pedofilia e le emozioni intenzionali nella relazione Io-Tu Ogni caso di pedofilia va considerato a sé stante, nella sua unicità, come succede quando si segue qualsiasi caso umano che richieda un sostegno o un intervento. Durante il percorso logoterapeutico la persona con pedofilia impara a distinguere le emozioni intenzionali dalle emozioni pulsionali. Nelle emozioni intenzionali «decido di fare una cosa che mi interessa»; nell’atto di «decidere» c’è la mia intenzionalità e nel «mi interessa» c’è la mia emozione. Nelle emozioni pulsionali «devo fare una cosa che è più forte di me»: nell’assunto «devo fare» c’è l’obbligo pulsionale e io perdo la mia libertà di scelta, quindi m i deresponsabilizzo; nel pensiero «è più forte di me» c’è la mia sottomissione emotiva a qualcosa che mi costringe, mi condiziona. Questa dualità emotiva è insita nell’uomo, ma non sempre è scientemente così ben chiara e distinta. L’uomo sano ed equilibrato avverte quando una delle due emozioni predomina sull’altra e, con determinazione, riesce a frenare l’emozione pulsionale. Per lui è possibile frenarla e utilizzare, a proprio vantaggio, quell’energia che rimane in sospeso. Per l’uomo con pedofilia è così e basta: la pulsione irrefrenabile arriva e, proprio perché è irrefrenabile, è anche ingestibile; quindi, l’uomo fa ciò che, in quel momento, si sente di fare: come i bambini prima che sviluppino la coscienza e interiorizzino le norme. Da qui si comprende che l’uomo che non controlla le emozioni pulsionali è carente di qualcosa: manca l’autogestione degli impulsi, l’interiorizzazione delle norme, la capacità di autocontrollo, soprattutto la sensazione di essere una persona autodefinita, individuata, staccata dalle pulsioni primitive, cieche, caotiche. La logoterapia permette al terapeuta di aiutare la persona con pedofilia a portare alla coscienza le emozioni pulsionali, a distanziarsene e a scoprire, piano piano, le emozioni intenzionali e tutte le facoltà del suo equilibrio. In questa prospettiva, la persona con pedofilia è veramente una persona da aiutare e non da sterminare. Probabilmente anche chi legge che esiste la possibilità di offrire aiuto alla persona con pedofilia avverte dentro di sé le emozioni pulsionali (che potrebbero generare pensieri delinquenziali); è più saggio far predominare le emozioni intenzionali, quelle noetiche, quelle che pongono rimedio e non creano ulteriori fatti iniqui e, soprattutto, non perpetuano il problema della pedofilia. 10

Nel vivere noeticamente le emozioni intenzionali, è inevitabile percepire i primi barlumi del senso di colpa nei confronti della persona che ha subìto i comportamenti pulsionali; del resto, durante la fase maieutica questi primi moti interiori che la persona con pedofilia esperisce sono sinonimo di cambiamento. Il logoterapeuta elabora con lei il senso del pentimento allo scopo di attuare nuovi comportamenti nei confronti di quelli malsani. Questi ultimi non sono modificabili nel loro «essere esistiti nel passato», ma offrono alla persona, nel presente, la possibilità di essere capiti e di non essere ripetuti nel futuro; tutto ciò, solo se la persona decide liberamente e responsabilmente di non ripeterli più. La fenomenologia della colpa nell’analisi frankliana perviene così alla teorizzazione del pentimento come predisposizione interiore al cambiamento, come atteggiamento interiore profondo che consente di s-fondare l’immobilità della situazione, dovuta all’irreversibilità del male compiuto, e permette di ri-fondare una intenzionalità educativa capace di alimentare un progetto di uomo rinnovato e di ideare percorsi reali di espiazione-riparazione e di vera ricostruzione di sé (Bruzzone, 2001, p. 327). 4. L’autotrascendenza Autotrascendersi significa andare oltre se stessi non trascurandosi – come temono molte persone – ma, al contrario, arricchendosi attraverso questo movimento psico-noetico verso il tutto dell’Altro, in questo caso verso il tutto del bambino, sempre e soltanto verso il bambino da rispettare. Durante il percorso logoterapeutico l’andare verso l’altro diventa sempre più cosciente, gratificante, disinteressato, non più offuscato dalla possessività o da spinte di autorealizzazione ma in modo autentico e incondizionato. Per l’Io il Tu non dovrebbe possedere un valore d’uso ma stimolare nell’Io il totale rispetto dell’unicità tridimensionale dell’essere del Tu. 4.1. Il vuoto psichico e di senso crea maggior danno del pieno patologico Nel viversi il proprio vuoto psichico e di senso non vi è autotrascendenza in quanto l’Io è autocentrato e iperriflette su di sé. È importante che i bisogni sottesi al comportamento pedofilico (la volontà di piacere di freudiana memoria) vengano comunque soddisfatti tramite altre forme compensatorie prima di passare al cambiamento vero e proprio sia dell’atteggiamento mentale che del comportamento e che miri a un significato esistenziale diverso, che abbia un collegamento diretto con il senso di libertà e di responsabilità nuove. La volontà di significato è impossibile da raggiungere nell’iperriflessione della persona con pedofilia. Quando viene frustrata la volontà di significato, interviene la volontà di piacere, la ricerca spasmodica di soddisfazione a tutti i livelli, primariamente a livello sessuale, con il compito di stordire la consapevolezza dell’uomo di fronte al suo inappagamento esistenziale, e di celare questo agli occhi della sua coscienza. In altre parole: la volontà di piacere entra in scena, per così dire, quando ne esce la volontà di significato; è allora soltanto che l’uomo cade nella sudditanza del principio del piacere predicato dalla psicoanalisi (Fizzotti, 1990, p. 47). Tutto il lavoro di ristrutturazione di una mente disturbata non può avvenire in modo improvvisato e maldestro. Il logoterapeuta garantisce, nell’immediato, la compensazione che deve essere soltanto provvisoria. Perché dev’essere provvisoria? Perché viene proposta dal terapeuta. Quindi, ha senso solo per lui. Risulterà ricca di senso solo quando verrà partorita dalla persona con pedofilia che però ha bisogno di un tempo personale che è sempre soggettivo. Inizialmente, l’idea prodotta dalla persona con pedofilia sarà un’idea solo compensatoria, caratterizzata dal senso di libertà dal comportamentomalsano. Nella fase di passaggio dalla libertà da alla libertà per (quando non avviene quel sostegnoreciproco provvisorio) si crea spesso una sorta di vuoto, di sospensione, che deve essere riempita dal terapeuta fintanto che la persona non decide di assumere il suo nuovo comportamento o non si 11

sente capace di farlo. Quindi, durante il lavoro logoterapeutico se non offro subito qualcosa al paziente (le gratificazioni per le piccole cose che inizia a fare o per i nuovi comportamenti) metto a repentaglio la sua vita psichica e, con essa, la sua vita spirituale. Una persona con pedofilia, appesantita da nuovi vuoti, creerebbe danni irreversibili agli altri e a se stessa. Tuttavia, non va liberato un individuo dalle sue infermità a rischio di abbandonarlo in balia di se stesso. Eppure a questo si giunge volendo risparmiare qualsiasi situazione spiacevole, combattendo incondizionatamente ogni sofferenza, inclusa quella che cela un tormento esistenziale colmo di senso. Potrebbe allora capitare che un uomo, con la sua sofferenza, perda anche se stesso (Frankl, 2001b, p. 25). È fondamentale, nel percorso logoterapeutico, che sia la persona con pedofilia ad avvertire dentro di sé che tutto ciò che scopre è una personale conquista interiore. Mai si deve dare la sensazione, a colui che chiede aiuto, che ciò che ha commesso pone fine a qualsiasi possibilità di cambiamento. 4.2. Ognuno ha il diritto di rimettersi in piedi da solo: verso la ripresa dell’autonomia La correzione del comportamento della persona con pedofilia avviene anche grazie a una modalità definita «modulazione dell’atteggiamento», che non è basata su schemi prefissati e rigidi, ma utilizza la parola per raggiungere degli obiettivi mirati che diano senso alla vita della persona, di qualsiasi persona. Nella fase di modulazione dell’atteggiamento pedofilico si cerca di scoprire, prima di tutto, se vi è l’attiva partecipazione della persona, nella ricerca di nuove alternative di senso da dare alla propria vita. Questa modalità d’intervento non considera mai, in nessun caso, la critica distruttiva di ciò che è stato fatto dal paziente, neanche nel caso di azioni gravemente errate. Partendo dal presupposto di infondere coraggio e calma, si ristrutturano tutte le rigidità, i preconcetti malsani, le dissonanze e le contraddizioni esistenziali, tramite il dialogo maieutico cioè il dialogo che il paziente crea, fra sé e se stesso, formulando dei concetti nuovi che gli diano la sensazione di svincolarsi dai precedenti atteggiamenti; sarà lui, poi, a criticarsi (Marconi, 2005, p. 194). Procedendo in questo modo, e con l’ulteriore aiuto logoterapeutico delle domande ingenue, la persona viene messa nella condizione di rigenerarsi interiormente e di capire, nella fase successiva, cos’è accaduto. Le domande ingenue contengono implicitamente una risposta contestativa che stimola nell’Altro l’indignazione e lo sprona a chiarire, soprattutto a se stesso, che ciò che viene ipotizzato con la domanda ingenua è sbagliato. Nell’atto di porre la domanda ingenua è molto importante evitare il sarcasmo in quanto è offensivo e, spesso, scatena la collera. Il fatto di indignarsi davanti a una persona, proprio quella che ha sollecitato la risposta, risveglia la coscienza di fronte a un proprio sentimento preferenziale. Con questa modalità «si porta il paziente, mediante domande appropriate, a riconoscere da solo che il proprio atteggiamento è per lui malsano e forse persino pericoloso» (Lukas, 1995, p. 173). 4.3. Il risveglio dello stupore e della meraviglia come scoperta dei valori nella fase dell’autotrascendenzaQuando nasce la consapevolezza dell’autotrascendenza la persona con pedofilia percepisce la sua libertà di comportarsi diversamente nei confronti del bambino. La consapevolezza è molto importante nelle dinamiche psichiche, in quanto la persona si sente in contatto diretto con le sue funzioni noetiche del decidere responsabilmente nei confronti di qualcuno. Nell’attivarsi responsabilmente vi è già implicita la libertà di cambiare, la libertà di migliorare, la libertà di non danneggiare la persona-bambino. Durante questa fase maieutica di scoperte valoriali la persona con pedofilia percepisce il suo stupore e la sua meraviglia e questo stimola a superare la provvisorietà del comportamento spregevole e a raggiungere l’equilibrio psiconoetico. 12

Una maieutica senza meraviglia è inautentica, poiché la meraviglia ci permette di scoprire al di là delle ovvietà lo scarto esistente tra noi e il Logos, il valore e di svelare la nostra originaria tensione. Il logoterapeuta, come Socrate, deve ridestare il sentimento autentico della meraviglia che è alla base dell’autotrascendenza frankliana: l’Io scopre di essere sempre superato dal valore e che può essere se stesso pienamente solo orientandosi verso questo valore, superando i propri limiti e condizionamenti in un processo infinito (Giordano, 1992, p. 92). Per il logoterapeuta, come per tutti gli psicoterapeuti, dovrebbe essere sempre molto importante stupirsi. Ciò vuol dire anche che lo stupirsi non dev’essere mai fatto trapelare apertamente o verbalmente in quanto il paziente non deve mai percepire la sensazione di essere oggetto d’interesse morboso da parte del logoterapeuta. Quello «stupore interiore» è il motore psichico e spirituale che nutre la motivazione ad aiutare e che dovrebbe essere sempre viva. Nell’autotrascendenza del logoterapeuta verso il suo paziente lo stupore e la meraviglia sono moti sani che non dovrebbero mai morire e che, in alcuni casi, possono anche essere condivisi. «La “Meraviglia” e lo “Stupore” di fronte alla fondamentale esperienza della “problematicità dell’esistenza” ci porta a considerare la vita come sostanzialmente prigioniera della provvisorietà e, contemporaneamente, come anelante di volta in volta a trascendere tale provvisorietà…» (Brancaleone, 2000, p. 100). 5. Il sostegno logoterapeutico alla famiglia Come avviene nel setting logoterapeutico individuale, è importante che anche in quello familiare si mantengano costantemente sospesi i propri criteri di giudizio senza mai tradire i propri valori né la propria fede. A causa della paura che incute, l’argomento pedofilia crea un forte senso di rifiuto che ostacola la possibilità in tutti i membri familiari di instaurare un approccio empatico, fondamentale nella relazione di aiuto e nel processo di cura. È, quindi, necessario attendere i tempi di ognuno, al fine di favorire un clima disteso e mai giudicante. Dovremmo tener sempre ben presente il fatto che giudicare e condannare la persona con pedofilia, alla fine, si ritorce proprio contro coloro che vogliamo proteggere, i bambini. È sicuramente un fatto positivo che, superando ancestrali rimozioni, si incominci a riconoscere che i rapporti tra adulto e bambino non sono sempre improntati all’affetto e al rispetto; che la declamata tenerezza verso l’infanzia è spesso sostituita o coniugata con sadiche violenze; che l’amore verso il fanciullo non impedisce l’esplosione dell’odio e della aggressività dell’adulto verso chi disturba ed è percepito come rivale; che il concetto di aiuto alla crescita è spesso sostituito da un oscuro senso di proprietà che si estrinseca nella profonda convinzione di poter fare ciò che si vuole di chi è nostro figlio (Moro, 1988, p. 6). Il familiare che scopre un incesto pedofilico all’interno della famiglia, dal quale fatto crede di non poter più uscire, crolla in una sorta di iperriflessione che lo conduce inevitabilmente a circoscrivere tutta la sua esistenza dentro il problema. Nulla ha più importanza, tutto ciò che accade fuori dal problema è insignificante, inutile, banale. Il tutto è ovviamente aggravato quando l’abuso sia compiuto da un genitore, perché la confusione dei ruoli accentua l’angoscia e la prostrazione in cui sempre il bambino vive una precoce esperienza sessuale e perché un fatto incestuoso innesca nell’ambito familiare una serie di relazioni false e abnormi che inquinano tutti i rapporti e danno esca a giochi perversi estremamente distruggenti (ibidem, p. 156). Il logoterapeuta attua una serie di interventi aventi come scopo la tutela del bambino, l’offerta alla persona con pedofilia della possibilità di appropriarsi della sua dignità e, infine, la possibilità di riequilibrare l’assetto familiare scoprendo il senso di ciò che è accaduto a ognuno. In ogni situazione familiare esiste una dinamica sua propria che spesso rappresenta l’anima del problema stesso (pedofilico e non). Separare i componenti della famiglia significa creare 13

potenziali nuove matrici di situazioni simili che potrebbero perpetuarsi. È all’interno della famiglia che vanno capiti e risolti i problemi perché è solo là che si scoprono le soluzioni. Non lasciare che tutto proceda all’insegna dell’aberrazione ma non permettere neanche che la famiglia si senta obbligata a separare il bambino dal suo nucleo di riferimento, anche se disturbato (Marconi, 2005, p. 114). Quando la famiglia, dopo un buon lavoro logoterapeutico, raggiunge un nuovo equilibrio è più giusto permettere a ogni componente di rimanere nello stesso nucleo. Come per il singolo, anche nel caso della famiglia sono importanti l’autodistanziamento e l’autotrascendenza: «l’autodistanziamento ci permette di riconoscere all’interno della famiglia vuoti di funzione e di colmarli con l’impegno personale, mentre l’autotrascendenza ci permette di rinunciare a delle funzioni all’interno della famiglia se ciò è utile alla comunità familiare perché evita collisioni di funzioni. In tal modo ci sono tutti i presupposti per poter mantenere anche in situazioni di crisi l’armonioso accordo delle funzioni dei vari familiari» (Lukas, p. 234). Ogni membro familiare, dopo aver scoperto il senso di ciò che è accaduto, elabora da solo e poi in gruppo le risorse di significato a cui poter attingere e, nel contempo, impara a rispettare l’unicità di ogni persona nella dinamica noetica dell’autotrascendenza. Bibliografia Bellantoni D. (2005), Le prospettive cliniche della logoterapia. Verso la definizione di unmodello clinico integrato. In E. Fizzotti (a cura di), Nuovi orizzonti di ben-essere esistenziale. Il contributo della logoterapia di V.E. Frankl, Roma, Las, pp. 147-171. Brancaleone F. (2000), Dia-Logos.Principi e tecniche di Logoterapia, Logoanalisi eLogodinamica, Napoli, OFB-Editing. Bruzzone D. (2001), Autotrascendenza e formazione. Esperienza esistenziale, prospettive pedagogiche e sollecitazioni educative nel pensiero di V.E. Frankl, Milano, Vita e Pensiero. De Leo G. e Petruccelli I. (a cura di) (2000), L’abuso sessuale infantile e la pedofilia. L’intervento sulla vittima, Milano, Franco Angeli. Fizzotti E. (1990), Annotazioni sul significato della sofferenza in Viktor E. Frankl. In E. Fizzotti e R. Carelli (a cura di), Logoterapia applicata. Da una vita senza senso a un senso nella vita, Brezzo di Bedero (VR), Salcom, pp. 43-57. Fizzotti E. (1998), Sulle tracce del senso. Percorsi logoterapeutici, Roma, Las. Fizzotti E. e Gismondi A. (1991), Il suicidio. Vuoto esistenziale e ricerca di senso, Torino, SEI. Frankl V.E. (1974), Psicoterapia nella pratica medica, Firenze, Giunti-Barbera, 4ª ed. Frankl V.E. (2000), Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, Brescia, Morcelliana, 4ª ed. Frankl V.E. (1978), Teoria e terapia delle nevrosi, Brescia, Morcelliana, 3ª ed. Frankl V.E. (2001b), Homo PatiensSoffrire con dignità, Brescia, Queriniana. 2ª ed. Frankl V.E. (2001c), Logoterapia, medicina dell’anima, a cura di E. Fizzotti, Milano, Gribaudi. Frankl V.E. (2005a), Alla ricerca di un significato della vita, Milano, Mursia, 4ª ed. Frankl V.E. (2005b), Dieci tesi sulla persona. In Id., La sfida del significato. Analisi esistenziale e ricerca di senso, a cura di D. Bruzzone e E. Fizzotti, Trento, Erickson, pp. 33-42. Giordano P. (1992), Logoterapia. Senso della vita e rapporto io-tu, Roma, Edizioni Univ. Romane. Giordano P. (2001), Lo spazio donato. Dialogo immaginario con Socrate, Venezia, CSC Srl. Ianes D. e Cramerotti S. (2002), Comportamenti problema e alleanze psicoeducative. Strategie per la disabilità mentale e l’autostima, Trento, Erickson. Lukas E. (1987), Dare un senso alla famiglia, Logoterapia e pedagogia, Roma, Paoline. Lukas E. (1991), Dare un senso alla vita. Logoterapia e vuoto esistenziale, Assisi, Cittadella. Lukas E. (1995), Dare un senso alla sofferenza. Logoterapia e dolore umano, Assisi, Cittadella. Marconi M.M. (2005), Quando il senso della propria esistenza è la pedofilia, Padova, Upsel Domeneghini. Moro A.C. (1988), Erode fra noi. La violenza sui minori, Milano, Mursia. 14

15Niccoli R. (2005), Pedofilia. Tra fantasia e storia, Firenze, Rivista di psicologi e psicoterapeuti. Ed. Vertici. Picozzi M. e Maggi M. (2003), Pedofilia. Non chiamatelo amore, Milano, Guerini e Associati Schinaia C. (2001), Pedofilia pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pedofilo, Torino, Bollati Boringhieri.

Cordoglio e lutto

L’elaborazione del lutto è una dinamica psicologica in cui non c’è spazio per la logica. La logica ci fa dire “devo superare questo momento di dolore” ma i sentimenti e le emozioni non abitano nello spazio conscio, che è lo spazio in cui si sviluppa il ragionamento. Non si può dire “devo superare” in quanto il “devo” fa parte del mondo conscio, razionale, logico, mentre il “superare” dipende da una dinamica esclusivamente inconscia, analogica, profonda. Che cos’è l’elaborazione del lutto? E il cordoglio? Sono processi legati al tempo interno ed esterno. Il cordoglio è meno difficile da cogliere nella sua essenza più profonda. Cor significa cuore; doglio significa dolere quindi cordoglio sta a significare cuore che duole che soffre. Quando, dopo pochi momenti o ore o giorni percepiamo meno dolore possiamo forse dire “sto migliorando, sto uscendo dal tunnel della disperazione”. Certo, può essere, ma non basta. Non basta superare il periodo soggettivo del dolore acuto. Sono il lutto, il distacco, la separazione, che vanno elaborati e superati. Dopo il superamento del cordoglio, del dolore acuto, a volte dello strazio, la persona può ascoltarsi e cercare dentro di sè quel sottile cambiamento che le fa dire per la prima volta “sto interiorizzando la persona deceduta non più come entità destabilizzante che mi crea tristezza, depressione, pianto, ma come elemento simbolico unico e irripetibile, mio, che nessuno mi può togliere”. L’elemento simbolico rappresenta la persona deceduta. La rappresenta sostituendola con un ricordo o una sensazione o un’immagine o un suono o qualcosa di molto personale, intangibile, inspiegabile, percepibile soltanto dalla persona che elabora il lutto. Solo con l’interiorizzazione inconscia ma anche cosciente si elabora e si supera il lutto; si trova la pace, si raggiunge quello stato di quiete interiore, di equilibrio che non solo ci permette di riprendere la vita di relazione ma ci matura. Ci dona qualcosa di incisivo, di inestimabile, d’imprescindibilmente importante; arricchisce di senso la nostra esistenza in quanto nel nostro Essere abbiamo “depositato” l’Essenza di una persona cara. L’esperienza del dolore aiuta a crescere interiormente. Scongiurata la depressione o il burn-out è auspicabile che in tutte le persone che perdono un caro avvenga questa elaborazione sana. Dopo questa esperienza la persona è più solida, meno vulnerabile, più in equilibrio, meno portata a mettere in atto l’ansia d’attesa pensando con terrore a quanto potrebbe soffrire nel caso perdesse un’altra persona (soprattutto nella realtà degli operatori socio-sanitari o volontari che devono confrontarsi continuamente con la morte). Questa auspicabile invulnerabilità non è anestesia psicologica. E’ forza d’animo ed equilibrio. L’equilibrio conduce poi alla saggezza. Solo chi soffre cresce interiormente e chi cresce interiormente raggiunge la saggezza. Tutte le persone si arricchiscono dopo un’esperienza dolorosa. La morte è l’esperienza più rappresentativa in assoluto della sofferenza, dello sconvolgimento interiore, della perdita di una

certezza che è svanita repentinamente anche quando si crede di essere preparati perchè magari il momento della morte è preceduto da una lunga agonia. Certo, non si è mai preparati alla morte di una persona cara. Quanto più è stata importante per noi la persona deceduta, tanto più il segno che lascerà sarà profondo. Questa profondità rinforzerà, una volta elaborato il lutto, lo spessore umano. Se il lutto resta irrisolto, magari per anni, determinerà la debolezza della persona perchè subentreranno situazioni psicologiche di disagio più o meno critico che potranno anche sfociare in patologie come la depressione, la nevrosi d’ansia, la psicosi o i disturbi psicosomatici (conversione di energie dalla mente che soffre al corpo che può dimostrare la sofferenza). Come capiamo se abbiamo elaborato un lutto? Pensiamo ad una persona cara che ci ha lasciato… Quanto tempo è passato dalla morte? Il cordoglio è superato? Soffriamo ancora tanto per la scomparsa? Se la risposta è affermativa stiamo attraversando il periodo più difficile in assoluto. Se invece non percepiamo più un dolore lancinante, probabilmente abbiamo superato la prima fase, quella del cordoglio. Vediamo, ora, se abbiamo superato il lutto. Chiediamoci se “è scivolato dentro”, nel nostro profondo, qualcosa che sostituisce e rappresenta coscientemente la persona che ci ha lasciato. Ascoltiamoci dentro… Ed ora, se la risposta è affermativa proviamo a chiederci come ci confrontiamo con il mondo esterno possedendo questa ricchezza in più!…Come?!… Se invece la risposta è negativa significa che non abbiamo superato il lutto. Allora dobbiamo attendere che avvenga quel movimento interiore così importante per la vita futura. Quel movimento inizia ad attuarsi quando riflettiamo su chi era la persona, cosa rappresentava per noi, cos’ha lasciato dentro il nostro animo, quali sono i ricordi che abbiamo di lei, ecc. Da un certo momento in avanti avviene una naturale risoluzione interiore che alleggerisce la mente e infonde tranquillità, serenità ed equilibrio.

Il valore della LIBERTA’ nella vita di coppia

Il valore della Libertà, nella vita di coppia, non può prescindere dalla comprensione del significato del concetto di ‘libertà individuale’: se non conosco e, di conseguenza, non so rispettare la mia Libertà, non sarò mai in grado di rispettare la Libertà dell’Altro. Mi soffermo ad analizzare queste ultime definizioni: se ci fermiamo ingenuamente e continuiamo a leggere sempre le stesse affermazioni senza riflettere su di esse, creiamo in noi, senza rendercene conto, delle rigidità psichiche che altro non fanno che perpetuare ciò che la logoanalisi aborrisce:il riduzionismo e il determinismo. Non per tutte le persone è vero che l’essere umano dovrebbe esperire personalmente il senso della Libertà per essere in grado di vivere un rapporto a due sereno! L’assolutismo blocca il pensiero e non facilità l’emergere noetico dell’unicità dell’Altro! Nella mia pratica professionale ho notato che molte persone, a causa o grazie ad alcune esperienze giovanili, hanno scoperto il valore della Libertà nelle altre persone pur non avendo consapevolezza della propria. Hanno scoperto il piacere di rispettare la Libertà dell’altra persona e, durante la loro evoluzione psiconoetica, hanno preso coscienza che anche in loro esisteva questa potenzialità. Questo mi ha fatto riflettere molto sui tempi interni di ogni singolo individuo, sull’originalità di ognuno di noi, sulle caratteristiche che ogni persona possiede rispetto a tutte le dinamiche inconscie e consapevoli. Le domande che mi giungono spontaneamente alla coscienza durante il lavoro logoanalitico sono le seguenti: Esistono, in questa persona, i contatti fra le tre dimensioni? Corpo, mente e Nous: la corporeità è in contatto con la mente? E con la mente dell’Altro? La mente di questa persona è in contatto con il suo Nous? E con il Nous dell’Altro? Queste domande dovrebbero affiorare spontanee solo quando si è proiettati verso l’alterità e verso la sua unicità. Le tre dimensioni umane dovrebbero compenetrarsi tra loro come per ogni entità esistente. Se una persona è invischiata nella propria egoità, non ha occhi per vedere l’alterità. Crede di vederla , in realtà tende a vedere inconsapevolmente nell’altra persona ciò che vorrebbe che appartenesse all’altra persona. Qualcosa che inerisce la categoria dell’avere, non dell’essere. In psicologia clinica questo meccanismo viene definito “proiezione” ed è un fenomeno involontario che deruba l’Altro della propria Libertà. L’Altro non si sente

realmente a proprio agio perché percepisce di non essere vissuto come egli ‘è’ ma per quanto egli ‘ha’: gli viene attribuita una serie di caratteristiche che danno all’altro l’idea di possesso. L’immagine della persona in logoterapia è: “L’uomo èmolto più che…” Il senso della Libertà non può prescindere dalla tridimensionalità ma soprattutto dalla dimensione noetica dell’essere umano: non può essere legato solo alla sfera psichica. Corpo, mente, nous: tutti possiamo percepire il corpo libero (dimensione fisica) quando semplicemente lo facciamo camminare in spazi aperti o lo facciamo correre dove avverte sensazioni di libertà di movimento, o quando utilizza i propri cinque sensi… Molte persone possono anche parlare(dimensione psichica) di Libertà e ragionare su questo concetto nelle sue svariate sfumature che vanno dalla ‘Libertà da’ alla ‘Libertà verso’ o ‘per’. Riflettere sul concetto di Libertà non significa, come molte persone credono, esserne depositari. Ragionare sulla Libertà, comunque, può già essere un buon passo di avvicinamento alla dimensione noetica perché la sfera psichica si attiva e inizia, almeno a livello razionale, a smuovere certe radici del ‘senso della Libertà’ stessa. Il passo successivo, il più importante, è quello che riguarda l’emersione spirituale del senso della Libertà. Molti giovani, scivolati nella voragine della droga e dell’alcool, sono pienamente convinti di aver scoperto la strada maestra della felicità. Loro sì che sono stati in gamba a scoprirla! Non si rendono conto di esser caduti, invece, nell’abisso della perdizione, quindi della schiavitù. Quella schiavitù per loro è comunque un punto di riferimento. Bisognerebbe poter ridefinire e ricontestualizzare quel punto di riferimento. Addentrarsi con umiltà nella dimensione spirituale del senso della Libertà, significa percepirla ‘vasta dentro la propria essenza’ anche quando ci si ritrova costretti a subire una richiesta della vita che possiamo far diventare “prestazione”. La consapevolezza della consapevolezza di essere pienamente liberi di scegliere ciò che la vita ci propone o, a volte, ci impone, è il vero senso noetico della Libertà. Nella piena libertà di scelta si dovrebbe percepire il bisogno del sostegno della propria responsabilità. Non si può prescindere da essa! “Per molte persone la parola Libertà esprime un concetto positivo:lottano per la Libertà, desiderano ardentemente la Libertà, ma dimenticano spesso che la Libertà è come un campo smisurato e senza sentieri. Ci si può muovere in ogni direzione, certo, e non ci sono barriere o recinti che obbligano a fermarsi, ma non c’è neppure niente che aiuti ad orientarsi, niente che indirizzi ad uno scopo. Anche in un campo vuoto e sconfinato si può vagare disperatamente…” (Lukas 1991, p.15) Scoprire e fare proprio il senso della responsabilità, rinforza ed aumenta il senso della Libertà.

Quest’ultimo deve andare oltre la psiche: trascendere l’uomo e trascendere la coppia. Il senso della Libertà dovrebbe travalicare i limiti dello scopo della vita ed entrare nella dimensione trascendente del senso della vita. Una coppia che si prefigga uno scopo di vita è una coppia che sfrutta solo le potenzialità intrapsichiche che sono condizionate prevalentemente dalla ‘necessità’ e, di rado, dalla ‘possibilità’. La coppia, invece, che voglia dare senso alla propria vita è una coppia che assapora e fa sue le potenzialità noetiche, trascendenti, non solo intrapsichiche. La determinazione di voler attuare qualcosa per la propria vita emerge da uno scopo intrapsichico (l’atto volitivo, il desiderio, la spinta motivata) mentre il senso trascende l’essere umano. L’essere uomo e l’essere coppia, dovrebbero protendersi oltre il Sé dei singoli, pur rispettandolo. Quando due persone si costituiscono in coppia, si realizza l’avvicinamento di due forme di Libertà (sempre tridimensionali) che, nel tempo, dovrebbero imparare a compenetrarsi e a convivere rispettandosi a vicenda. Ora impostiamo un problema. Poniamo una delle domande fondamentali: che cos’è la Libertà per l’uomo? Quando un uomo si sente libero? Un uomo si sente libero quando non si sente condizionato nelle sue possibilità di scelta. Infatti la Libertà è una condizione, tipicamente umana, mentale e spirituale, che ci pone continuamente davanti a delle scelte che ci definiscono come persone e ci differenziano. In questo senso la Libertà convive necessariamente con la possibilità: più possibilità di scelta ho, più mi sento libero. Quindi devo educarmi ad ampliare le mie alternative di scelta sapendole riconoscere. La Libertà è anche un valore: nella scelta sono implicite l’autonomia e la responsabilità. La Libertà rappresenta una necessità della coscienza (psichica), una direzione ideale(doverosità), che tenga conto della coerenza interna (doverosità verso se stessi) e del rispetto dei bisogni degli altri (doverosità verso gli altri). Ma la Libertà rappresenta anche una possibilità dello spirito: non può e non dovrebbe restare vincolata solo alla dimensione psichica. L’educazione alla scelta diventa una educazione all’autonomia e alla responsabilità imparando, di volta in volta, a scoprire, nelle situazioni concrete dell’esistenza, le giuste priorità interiori ed esterne. E’ un allenamento quotidiano che si realizza nel prendere posizione e nell’agire. In questo senso educare alla Libertà significa educare all’azione; ma è un’azione che ha in sé la possibilità noetica non solo la necessità psichica. Il senso di responsabilità dovrebbe camminare di pari passo col senso di Libertà. La persona impara a voler fare qualcosa che ‘vuole dover fare’ per raggiungere il

suo obiettivo. Per acquisire ciò, deve tener sempre presente la mèta da raggiungere e considerare che il suo percorso sarà irto di ostacoli che vorrà superare: quasi a sfidarne la prepotenza. Nella coppia, il singolo che ha dato vita a questa consapevolezza dentro di sé, è in grado di aiutare l’Altro nella ricerca del senso di Libertà non ancora scoperto. 2. Libertà da Partendo dal presupposto che non esiste Libertà senza l’interiorizzazione delle norme, per scoprire e coltivare il proprio e l’altrui senso di Libertà, è bene prescindere sempre da quelle norme e da quei vincoli esterni che hanno generato reazioni oppositive durante l’età infantile ed adolescenziale. Quelle reazioni antagoniste nei confronti dei genitori e delle loro regole, devono trovare la loro giusta modalità espressiva. La persona adulta dovrebbe chiedersi se ha interiorizzato le regole genitoriali perché vi era in essa il desiderio di‘diventare’ quelle norme, quei valori, quei principi o se l’ha fatto solo per spirito di emulazione o per paura. ‘Accorgersi’ di un valore o di una norma nell’Altro (il genitore) ed imparare a ‘farlo proprio’ determina una libera scelta (solo noetica) che condizionerà il comportamento futuro e che verrà poi vissuto nel rapporto Io-Tu. Educarsi ed educare al senso della Libertà è un processo continuo che forma la mente dell’uomo. In questa dinamica, la persona prende coscienza dei propri limiti e inizia prima a ‘liberarsi da’ preconcetti che limitano le sue scelte e, piano piano, percepisce la propria ‘libertà verso’ quella cosa vissuta come ‘scelta libera’. Il senso autentico di Libertà si vive nella consapevolezza di scegliere ed eseguire un’attività o coltivare una relazione (con qualcosa o qualcuno) che produca una risposta piacevole per il singolo che sceglie. Anche la coppia che vive autenticamente in libertà non dovrebbe fare ‘ciò che vuole’ in modo capriccioso ma ‘voler fare ciò che ha deciso di fare’ di comune accordo e che abbia sempre un senso per i singoli e per la coppia stessa. 3. L’Atto di Volontà nell’Autotrascendenza La maggior parte della teoria frankliana è basata sul concetto antropologico di autotrascendenza. Dimenticare se stessi e donarsi incondizionatamente è, secondo Frankl, l’unico modo che permette il raggiungimento dell’autorealizzazione, che diventa effetto stesso dell’autotrascendenza.

Senza l’atto di volontà nessun valore viene mantenuto in vita ed è proprio lo spegnimento dei valori a scaraventare l’uomo e la coppia nel baratro del nonsenso. Una coppia ben assortita impara ad educarsi reciprocamente al senso di Libertà creando un dialogo continuo all’interno del quale la Libertà del singolo si adatta alle esigenze interiori (del singolo stesso) e a quelle della Libertà dell’Altro. Nella coppia queste esigenze si moltiplicano. E’ importante, dunque, imparare ad ascoltare e a parlare all’Altro cercando di trovare sempre una soluzione ad ogni crisi. La soluzione non deve mai essere proposta né imposta ma dev’essere scoperta dal singolo stesso che vive la crisi. L’Altro lo aiuterà soltanto ad attivare in sé le proprie potenzialità di superamento della crisi. Nella ricerca reciproca di soluzioni, i due singoli interiorizzano il senso di responsabilità che si traduce, nel tempo, in Libertà di coppia. Nel dialogo Io-Tu devono venir rispettate le priorità di scelta dei singoli senza mai sottovalutare i valori reciproci. Solo così si scopre la possibilità, non solo la necessità, di raggiungere quell’equilibrio sereno che sproni i due partners al raggiungimento degli obiettivi individuali e di coppia: il ‘Senso della vita di coppia’. In questo scambio di attenzioni è indispensabile l’atto di volontà che inerisce sicuramente la sfera psichica dell’Essere ma non può restare monopolio esclusivo di essa in quanto creerebbe fenomenicamente soltanto un agire inamimato, apersonale, vuoto di contenuti emotivo-affettivi. L’atto di volontà si forma nella psiche (vi è quindi consapevolezza) ma riceve la sua linfa vitale dallo Spirito; viene arricchito di senso da esso, si manifesta come atto ma trasmette tutto il suo contenuto ‘essenziale’ che, grazie ai valori, si proietta nella dinamica noetica dell’autotrascendenza. L’atto di volontà che ‘esce’ dalla sfera psichica ed ‘entra’ in quella noetica, crea l’autentica ‘libertà della volontà’ che è un luogo antropologico in cui può radicare la ‘volontà di significato’ per dar origine al vero significato della vita di coppia. Magda Maddalena Marconi Psicologa-Psicoterapeuta-Logoterapeuta.

Riferimenti bibliografici Fizzotti E. e Carelli R.(1990), Logoterapia applicata, Salcom, Varese. Frankl V.E. (1990), Dio nell’inconscio, Morcelliana, Brescia. Frankl V.E. (1992), La sofferenza di una vita senza senso, Elle Di Ci, Torino. Frankl V.E. (1994), Senso e valori per l’esistenza, Città Nuova, Roma. Frankl V.E. (2001), Logoterapia Medicina dell’anima, Gribaudi, Milano. Giordano P.(1992), Logoanalisi, Città Nuova, Roma. Lukas E. (1990), Dare un senso alla famiglia, Paoline. Lukas E.(1991), Prevenire le crisi, Cittadella, Assisi. Lukas E. (1983), Dare un senso alla vita, Cittadella, Assisi.

La diagnosi di sieropositività all’AIDS e il sostegno psicologico

Se il test di sieropositività all’AIDS risulta positivo Se il test risulta positivo significa che si è contratto il virus e che lo si può trasmettere agli altri. Possiamo recarci a fare il test in tutti i centri AIDS sparsi sul territorio nazionale, in forma anonima. La risposta del test è personale e deve essere comunicata soltanto all’interessato. Se il test risulta positivo il virus è entrato nell’organismo, ma questo non significa che si svilupperà sicuramente l’AIDS. E’ bene: parlare con il proprio medico; contattare subito un centro specializzato per aiutare il Sistema Immunitario (S.I.) a lottare contro questa nuova condizione; chiedere informazioni sui farmaci, sull’alimentazione e sulle abitudini di vita più consone da rispettare. Se sei una persona sieropositiva -non devi subire discriminazioni -devi ricevere le adeguate cure mediche -devi poter mantenere il tuo posto di lavoro, la tua abitazione, la tua privacy -ricorda di praticare sesso sicuro anche se non hai sintomi -non scambiare la siringa, puoi trasmettere il virus agli altri e puoi entrare in contatto con altri ceppi del virus. Fa un gravissimo errore la persona sieropositiva che pensa “tanto il virus ce l’ho già! quindi che mi importa se mi infetto di nuovo!” In questi ultimi anni è infatti risultato chiaramente che l’HIV è un vero camaleonte, capace di cambiare la propria struttura nel tempo e nello spazio (cioè da una regione all’altra). Quindi è possibile che un soggetto sieropositivo si reinfetti con un ceppo HIV un pò diverso da quello “suo” originale, aggravando la propria situazione, sopratutto se, magari, il “nuovo arrivato” è già resistente ai farmaci antivirali. E poi non c’è soltanto l’HIV: quasi tutti i virus, batteri, funghi e protozoi, anche i più innocui, possono essere deleteri per chi è sieropositivo con scarse

difese immunitarie. Impediamo quindi loro l’entrata per via sessuale o attraverso una siringa già usata. In caso di sieropositività è importante: – far attenzione alle persone con sindromi influenzali o altre comuni malattie – eseguire controlli periodici – seguire gli sviluppi dello stato di salute – imparare a ridurre lo stress. ASPETTI PSICO-SOCIALI Molti studi riguardanti gli effetti dell’educazione di soggetti con comportamento a rischio, hanno confermato l’osservazione che programmi correttamente mirati di prevenzione possono interrompere la diffusione del virus. Di fronte a questa realtà preoccupante ma anche prevenibile, la risposta sociale è apparsa sproporzionata alla reale entità del problema: paura eccessiva, isteria, panico, reazioni fobiche, forme violente di ostracismo nei confronti di gruppi sociali specifici (ritenuti si vittime ma anche colpevoli). L’AIDS, in quanto malattia terribile ma anche misteriosa, produce PANICO ed AGGRESSIVITA’. Il PANICO, scatenato dalla paura dell’ignoto, dell’evento sconosciuto non dominabile, si traduce in fenomeni di isolamento e di emarginazione, mentre l’AGGRESSIVITA’si esprime con la ricerca di un capro espiatorio, di un colpevole. I malati di AIDS diventano così “vittime colpevoli di un gruppo colpevole” responsabili di aver infranto la barriera della formalità e di aver trasgredito a delle leggi. I mass- media hanno riattivato una serie di paure legate all’idea che l’AIDS sia la malattia correlata a specifici comportamenti ritenuti devianti, come la tossicodipendenza, l’omosessualità, la prostituzione, il tradimento nella relazione di coppia, quindi una sorta di metafora del male che impone paura dell’ignoto, angoscia della morte. Nell’immaginario collettivo questi comportamenti vengono giudicati immorali quindi l’AIDS rappresenta la giusta punizione! Affrontiamo ora l’aspetto psicologico rispondendo a tre domande 1 – cosa significa contrarre il virus 2 – come reagisce il paziente 3 – cosa possiamo fare 1 – Cosa significa contrarre il virus

Significa subire una modificazione della propria condizione esistenziale partendo dal Sistema Immunitario che, nel corso del tempo, condiziona negativamente il Sistema Nervoso Centrale (quindi anche la nostra tridimensionalità:corpo, mente e spirito) e il Sistema Endocrino. Contrarre il virus non significa necessariamente ammalarsi di una malattia molto grave ma sicuramente rappresenta una minaccia alla salute, all’integrità fisica, alla vita stessa ma, anche, la messa in crisi di un progetto esistenziale, la minaccia all’immagine di sè, al proprio ruolo sociale e familiare con conseguenze prevalentemente psicologiche nei confronti del partner, dei genitori, dei figli e degli amici. Così come il cancro, a cui è stata molto spesso paragonata, ripropone l’angoscia di morte e di grave debilitazione organica e può dare l’impressione di una analoga aggressione massiccia che distrugge e, di fronte alla quale, la medicina appare impotente. A differenza del cancro, però, l’AIDS colpisce persone per lo più giovani e si presenta come la rottura di un progetto esistenziale non ancora realizzato. Sul piano psicologico è vissuta in termini di responsabilità e colpa per averla contratta e di pericolosità per il fatto di poterla trasmettere ad altri, in particolare a partners e familiari. L’importante conseguenza è la necessità di modificare i comportamenti a rischio sia nella popolazione infetta sia in quella non infetta. Consideriamo ora i quattro gruppi a rischio: tossicomani, omosessuali, emofilici, eterosessuali. Il TOSSICOMANE già attraverso l’uso della droga crea un linguaggio di protesta e ribellione verso il mondo cercando di sfuggire la realtà da lui vissuta dolorosamente e, se in un primo momento, cerca una affermazione aggressiva della propria personalità attraverso la droga, successivamente quest’atto proibito provoca sensi di colpa. Si crea così un circolo vizioso poichè l’unica via d’uscita da questo senso di colpa è la droga. L’aggressività che prima era diretta verso l’esterno viene ora diretta all’interno con desideri di autodistruzione. In questo contesto la sieropositività o l’AIDS conclamata vengono neutralizzate con sentimenti di onnipotenza circa la capacità di guarigione, quella stessa onnipotenza con cui egli si illude di controllare la droga. I tossicomani rappresentano una popolazione eterogenea in cui una diagnosi di sieropositività può assumere significati diversi a seconda, ad esempio, che si tratti del TOSSICOMANE SALTUARIO (la sieropositività è vissuta come minaccia alla propria identità, alle relazioni esistenziali), o del TOSSICODIPENDENTE IN COMUNITA'(la siropositività è vissuta come conferma dell’inutilità dei propri sforzi) o dell’EX- TOSSICODIPENDENTE che, riabilitato nella società attraverso

il lavoro, la famiglia e le relazioni amicali, si sente perseguitato da un destino crudele cui non riesce a sottrarsi. L’OMOSESSUALE vive problemi di narcisismo e di identità sessuale. Anche questo gruppo non è omogeneo: gli OMOSESSUALI DICHIARATI si pongono di fronte alla diagnosi di HIV+ prevalentemente in termini di responsabilità personale e la vivono come conseguenza della scelta di un certo stile di vita. Gli OMOSESSUALI OCCASIONALI, magari sposati, in cui l’omosessualità è in genere malvissuta, con pratiche sessuali nascoste e conflitti con l’ambiente familiare d’origine, la diagnosi di HIV+ significa sentirsi infetti, pericolosi e rifiutati perchè appartenenti ad una categoria “sporca”. E’ la messa in crisi della stessa identità, è la giusta punizione per una colpa commessa. Dagli EMOFILICI l’infezione è avvertita come il continuo accanimento del destino o della persecuzione divina, ma anche una conferma della scarsa tutela del malato da parte del sistema sanitario nazionale. Gli ETEROSESSUALI fanno parte di un gruppo estremamente eterogeneo e considerando anche l’andamento epidemiologico, è più opportuno parlare di “popolazione ponte”, intendendo con ciò tutte quelle persone che, pur non connotandosi in nessun gruppo specifico, mettono in atto comportamenti a rischio sia con i “gruppi a rischio” sia con gli eterosessuali e fungono così da ponte per il contagio a tutta la popolazione. 2 – Come reagisce il paziente La reazione del paziente dipende dal suo carattere, dall’ambiente familiare in cui è cresciuto, dalla sua salute psico-fisica, dalla modalità d’infezione, dalla situazione emotivo-affettiva in cui sta vivendo e dal significato del suo progetto esistenziale. E’ importante esaminare le risposte della persona che si troverà di fronte a varie fasi Prima fase: comunicazione della diagnosi Seconda fase: sieropositività asintomatica Terza fase: primi sintomi e ospedalizzazione Quarta fase: fase terminale. Prima fase: Comunicazione della diagnosi

Uno dei momenti più drammatici nella vita di una persona è quello in cui le viene comunicata la diagnosi di sieropositività. Dal punto di vista psicologico il paziente si ammala proprio nel momento in cui si sente comunicare questa notizia. Oltre a ciò, questa persona non può nemmeno concedersi uno dei meccanismi di difesa più riscontrati in queste circostanze che è quello della negazione (“sicuramente i medici si sono sbagliati, io sto bene, non può essere vero quello che mi hanno appena comunicato”). Questo meccanismo scatta automaticamente in difesa della profonda angoscia di morte che la malattia evoca. A differenza di quanto avviene con il paziente neoplastico al quale non solo viene ampiamente concesso di negare la sua malattia ma tutto l’ambiente circostante coopera nel sostenere quella che viene definita la “congiura del silenzio”, al paziente sieropositivo si chiede di prendere atto subito della sua malattia per evitare di trasmetterla ad altri. Non può negarsela! Il paziente, in questa prima fase, deve gestire lo shock iniziale, l’ansia, la depressione, a volte l’apatia, il torpore psichico fino, a volte, il pensiero suicidario. Possono farsi strada forti sentimenti di colpa per lo stile di vita condotto; di rabbia per chi ha trasmesso l’infezione, all’improvviso tutto cambia, crolla ogni certezza, si fanno strada le fantasie di morte imminente, si vive un repentino blocco della progettualità, l’ansia accompagna come una nemica fedele la quotidianità, i disagi neurovegetativi si fanno prepotenti, si crea un baratro ineluttabile tra due vite, quella precedente il contagio e quella che seguirà. Seconda fase: Sieropositività asintomatica Dopo il superamento della prima fase di shock si assiste ad una fase di rinascita in cui il paziente, dopo alcuni mesi, soprattutto se è presente un valido supporto affettivo, sociale e psicologico, si adatta alla nuova realtà e raggiunge un certo equilibrio. Pur trovandosi in una posizione ambigua, in cui attende con molta angoscia i primi sintomi della malattia conclamata, ritrova un certo piacere di vivere, riprende le relazioni sociali, si impegna più a fondo nel lavoro e l’angoscia di morte, così intensa nella fase precedente, si attenua: la

morte non avverrà necessariamente domani e, in ogni caso essa può attendere. Non raramente questa tappa è segnata da un rinnovato interesse spirituale o religioso o artistico o professionale, tutte attività che consentono, attraverso la sublimazione delle spinte emotive la ristrutturazione di un progetto esistenziale ma anche il mantenimento di una rete sociale e di una propria identità. Se in questa fase l’adattamento non viene raggiunto possono approfondirsi i vissuti d’ansia di depressione, fobie, ipocondria e deliri di colpa o di persecuzione. Molto rari in questa fase i tentativi suicidari. Terza fase: Primi sintomi e ospedalizzazione. Con la comparsa dei primi sintomi organici, così come di eventi esterni (amici che muoiono di AIDS, perdita del lavoro) il paziente si confronta con la realtà clinica, con la sofferenza. Iniziando ad essere presenti astenia, febbre e perdita di peso, lo spettro della morte prende maggiore consistenza ed il paziente vive con la costante presenza della malattia. Si fa sempre più stretto il rapporto con gli operatori sanitari e s’instaura così l’alleanza terapeutica. Il ricovero ospedaliero è vissuto come un’esperienza molto provante per il malato di AIDS anche perchè entra in contatto diretto con altri pazienti affetti da AIDS conclamata. Spesso le precauzioni adottate possono essere interpretate come una punizione anzichè una necessità sanitaria e può nascere la sensazione di sentirsi rifiutati, “sporchi”. Con i primi sintomi e l’ospedalizzazione cade quindi definitivamente la negazione ed in parte la sublimazione, almeno per quanto riguarda il lavoro. Il paziente deve prendere coscienza di essere malato e, soprattutto se non aveva raggiunto precedentemente un certo equilibrio, si riattivano le vecchie angoscie e le fantasie di morte che possono far ricadere in importanti stati depressivi, apatia e totale isolamento. Sono possibili però ancora delle negazioni parziali e delle sublimazioni che si esprimono, ad esempio, nella richiesta

di partecipare a protocolli di ricerca e di offrirsi alla sperimentazione di nuovi farmaci. Quarta fase : Fase terminale Nella fase terminale il paziente si confronta da vicino con la morte e si intensificano le paure. Egli teme soprattutto la sofferenza fisica, la solitudine ma anche la perdita di controllo sulla malattia che può non consentirgli una morte dignitosa. Dal punto di vista psicopatologico si osservano soprattutto depressione e deliri che possono porre il problema di diagnosi differenziale con malattie organiche sostenute dall’interessamento diretto o secondario del S.N.C. da parte del virus. In questa fase l’intervento consisterà soprattutto nell’essere presenti, nel rassicurare il paziente, nel sedare il dolore se presente ed il controllo dei sintomi fisici e psichici. 3^ – Cosa possiamo fare Quello che possiamo fare è moltissimo! Innanzitutto considerare il fatto che chi è colpito dal virus dell’AIDS è una Persona e come tale va rispettata. Va rispettata la sua dignità di persona che soffre in quanto lei, più delle altre, ha bisogno di essere ascoltata, sostenuta e compresa. In occidente siamo ancora poco abituati a pensare che l’individuo è costituito dal corpo, dalla mente e dallo spirito quindi tendiamo a considerare il malato come semplice portatore di uno o più sintomi. Ma non è così. L’essere umano possiede anche una mente e uno spirito, un proprio modo d’essere unico e irripetibile. Il mondo biologico, fisiologico e chimico è tangibile, analizzabile, visibile, quello psicologico non è visibile e, proprio per questo è più difficile da “avvicinare”, da considerare, da sostenere. E’ un dato di fatto, ormai, che il dolore sia fisico sia psicologico è influenzato costantemente da vari fattori esterni ed interni. Quelli esterni molte volte non dipendono da noi quindi non sono evitabili (fonti di stress esterne: lavoro, situazioni esistenziali varie); quelli interni (tristezza, disperazione, fatica, ansia, paura, angoscia, preoccupazioni, inattività, isolamento, ecc.) sono invece evitabili. Pensiamo, ad esempio, all’isolamento. La sensazione d’isolamento che la Persona sieropositiva avverte

è terribile: la fa sentire distanziata dal resto del mondo, diversa, incompresa, indegna di considerazione. L’ansia e la depressione che ne conseguono peggiorano ulteriormente la situazione che, a questo punto, crolla del tutto e la Persona può decidere di autolesionarsi barricandosi in forme autistiche o suicidarie. Per evitare ciò proviamo a porci in ascolto innanzitutto ricordando che questa Persona ha bisogno di essere considerata, compresa, ascoltata; non solo attraverso la comunicazione verbale. Anche il corpo riesce a comunicare. Anche il silenzio comunica molte cose. Proviamo a porci in ascolto empatico. Diamo la possibilità a questa Persona di parlare, di aprire il suo animo, di alleggerire la sua mente dalle paure, dai risentimenti ma anche di esprimere i bisogni e i desideri troppe volte inespressi. La gratuità del nostro ascolto permetterà tutto ciò. Anche la persona più introversa, più inespugnabile, più timorosa, è in attesa che qualcuno le si avvicini in atteggiamento di ascolto. Per comprendere la sofferenza di chi soffre ci vuole una profonda attenzione, una sensibilità raffinata, un acuto spirito di osservazione e di abnegazione, ma forse, all’inizio, basta saper tacere ed ascoltare in modo che l’altra persona intuisca il nostro intuire.